Le origini della “distruzione creatrice” che ha sconvolto il mondo - Fondazione PER
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Le origini della “distruzione creatrice” che ha sconvolto il mondo

di Nicolò Addario

 

“Nelle religioni del Vicino Oriente, [la] dipendenza di

Dio dalle necessità, dalla capacità e dal servizio attivo

dell’adoratore non sembra mai essere stata compresa o

… ammessa: perché Dio – concepito come Ahura

Mazda, come Yahweh, come Trinità o come Allah – è

sempre stato pensato come l’assoluto, come l’unico Dio

valido per tutti … [Invece, per gli Indiani] tutto è

illusione: che se ne vada … ; [per i Giapponesi e i

Cinesi] tutto è mutamento: che venga pure; così, mentre

in India si cerca l’illuminazione con gli occhi chiusi, in

Giappone [e in Cina] si cerca l’illuminazione con gli occhi aperti”

(J. Campbell, Le maschere di Dio. Mitologia orientale)

 

La straordinaria attualità della Sociologia della religione è a mio avviso emersa dalle ricerche di quei numerosi studiosi che, interessandosi delle ragioni dello straordinario sviluppo dell’Occidente (a partire dalla metà del Settecento) si sono chiesti, in chiave di storia comparata, il perché del “Miracolo Europeo”. Alcuni, molto più esplicitamente, si sono domandati: “Perché l’Occidente e l’Europa? Perché non la Cina?”. Nel XVIII secolo v’erano regioni del mondo (l’India del Moghul, la Cina imperiale, l’Impero turco) che avevano molte delle condizioni che erano presenti nell’Europa Occidentale (particolarmente in Inghilterra e in Olanda), ma solo qui sorse e si affermò quello sviluppo esponenziale che troppo spesso noi diamo per scontato.

Weber aveva già colto questa straordinarietà sul piano della storia universale, soprattutto sotto l’aspetto della “razionalizzazione delle condotte di vita”, che, iniziata (questa la sua famosa tesi) con l’avvento delle grandi religioni universali (di salvezza), avrebbe condotto, ma solo qui in Occidente, all’affermazione dello “spirito del capitalismo moderno”. Soprattutto con la riforma protestante e la diffusione delle sette puritane, si è affermata (dal Seicento) quella particolare direzione di rifiuto del mondo che, per un paradosso solo apparente, divenne una “ascesi intra-mondana”.

Secondo la tipologia di Weber, le altre tre forme di rifiuto del mondo, che in misura più o meno grande hanno prevalso in India o in Cina o nel mondo islamico, sono: la contemplazione mistica che rifugge il mondo, la mistica che resta all’interno del mondo, l’ascesi extra-mondana. Di queste, la prima è di gran lunga la più radicale, perché richiede la rinuncia a ogni legame col mondo, che crea solo illusione e quindi sofferenza. Perciò occorre l’annullamento dell’io, come sostengono molte dottrine indù. La contemplazione mistica intra-mondana accetta l’ordinamento sociale dato, ma soltanto perché privo di significato religioso.

In questo caso, il mistico si adatta al mondo perché non dà alcun valore alle cose materiali, cerca soltanto di pervenire alla salvezza. L’ascesi extra-mondana, invece, considera il mondo corrotto e si concentra su “prestazioni attive di redenzione”, considerate conformi al comandamento divino. Al contrario, l’ascesi infra-mondana (puritana) è orientata a non seguire le prescrizioni dell’ordinamento sociale vigente, perché ritenute non gradite a dio (si deve ricordare che le sette puritane consideravano la chiesa Anglicana corrotta e, insieme alla corte Stuart, asservita all’Anticristo cioè il Papa).

L’ascesi intra-mondana, dunque, ha la convinzione che si debba agire nel mondo per trasformarlo attivamente secondo le prescrizioni divine. Questa forma di ascesi ha inoltre elaborato una teodicea (ossia del perché Dio abbia creato il male) altamente razionale, nella forma della predestinazione (già presente in Agostino): l’uomo non può comprendere i fini di Dio, può solo conformarsi ai suoi comandamenti, perché solo la fede può dare senso al mondo. Egli può così sperare di appartenere alla schiera dei beati. La grazia è stata già decisa da Dio, ma fuori dal tempus del creato e in modi per noi imperscrutabili.

L’opera attiva su questo mondo è tuttavia il modo con cui gli uomini glorificano l’opera di Dio, sebbene essa di per sé non sia affatto un mezzo per ottenere la grazia. Così, l’autodisciplina più rigorosa del “lavoro professionale” è semplicemente un dovere del buon fedele. Il suo successo nella professione, oltre a migliorare le condizioni della “comunità dei fratelli” (di fede), viene interpretato come una “vocazione” donata da Dio. Sul piano psicologico il successo professionale è considerato sovente il segno della grazia ricevuta. Anche per questo è ricercato con insistenza.

In questo modo la figura sociale dell’imprenditore si affermò ben oltre la cerchia dei puritani, sino a diventare “spirito del capitalismo”, la più diffusa forma culturale di legittimazione dell’economia di libero mercato. Questo, però, richiedeva un più generale contesto istituzionale, che fosse capace di assicurare nel tempo il rispetto della proprietà e degli investimenti di capitale, impedendo l’arbitrarietà del potere costituito. Sul piano della teoria economica, tuttavia, mancava una concettualizzazione adeguata della funzione imprenditoriale.

All’inizio del secolo scorso, Joseph Schumpeter scrisse un libro sulla teoria dello sviluppo economico molto originale, centrato sul concetto di “distruzione creatrice”. In modo forse troppo affrettato, potremmo così definirla. Si tratta di un “clima sociale” tale per cui vi sono degli “imprenditori” che innovano (nei processi o nelle conduzioni d’impresa, nei prodotti o nei mercati) e così, pur inducendo al fallimento molte imprese adagiatesi su precedenti standard, generano una spinta in avanti dell’intero sistema economico, perché danno vita a settori prima impensabili e a una crescente produttività. E così via per cicli che si susseguono. Insomma, ciò che è fonte di “distruzione” è nel contempo la vera molla dello sviluppo. Va peraltro osservato che la teoria dell’imprenditore (creatore e perciò nel contempo distruttore del vecchio) non spiegava veramente perché qui, ossia nell’economia capitalistica occidentale, vi fossero questi imprenditori.

La cosa molto interessante era che per Schumpeter essi erano dei “devianti”, perché, rispetto alle routines economiche volta per volta affermate, essi andavano decisamente contro corrente. La teoria economica direbbe che agiscono in condizioni di “incertezza”, dove l’incertezza, diversamente dal “rischio”, non è calcolabile in termini di probabilità di riuscita moltiplicata per il guadagno presunto. Si potrebbe dire che il “rischio” è correlato al grado di libertà della concorrenza e ai cicli macroeconomici, mentre l’“incertezza” si presenta per la complessità del mondo, a maggior ragione per il “deviante”. Si pensi all’attuale pandemia: era stata prevista dagli specialisti ma nessuno poteva prevedere “il quando, il dove e il cosa”. La complessità del mondo, a sua volta, dipende molto anche dal tipo di strutture sociali che si sono storicamente affermate.

La presenza, tuttavia, di questa sistematica “devianza” era spiegata in termini alquanto vaghi. A posteriori si può ritenere che con “clima sociale” Schumpeter rimandasse in qualche modo al più generale contesto sociale, non solo economico. Sicuramente una tale interpretazione è quella sostenuta dal moderno neoistituzionalismo (come per esempio si trova in Douglass D. North, Daron Acemoglu e molti altri). A mio avviso, sebbene in termini concettuali assai differenti, è un problema non diverso da quello che si pose Max Weber già con L’etica protestate e lo spirito del capitalismo (1904-05). Weber sottolineava, infatti, che il capitalismo a cui lui era interessato era quello propriamente “moderno e occidentale”, ossia quello che si basa, in modo sistematico, su un “agire razionale rispetto allo scopo”, mediato dai prezzi in denaro che si formano su mercati liberi.

La razionalità, a sua volta, si esprime nella “organizzazione del lavoro formalmente libero” (cito a memoria), senza la quale non vi sarebbe la “peculiarità del capitalismo occidentale”: l’universalizzazione e la tecnicizzazione scientifica insieme ai concetti di “cittadino”, borghesia e proletariato. In breve: senza “ordinamento sociale dell’Occidente” niente capitalismo razionale.

L’impresa capitalistica e i suoi imprenditori sono dunque figure storicamente e geograficamente molto particolari. Infatti, si tratta di una forma di capitalismo molto diversa da altri tipi che incontriamo nella storia del mondo (anche dello stesso Occidente, oltre che in Cina, India, Babilonia, Egitto, Medio Oriente e Mediterraneo), sin dall’antichità: capitalismo di rapina o di bottino, di monopolio concesso dal monarca e/o protetto da corporazioni cetuali, di carattere bellico con l’imposizione di tributi e vere spoliazioni. Nella definizione di Medioevo come di un’epoca di “secoli bui” v’era una certa esagerazione. Ma dalla prospettiva del grande balzo rappresentato dalla modernità occidentale, non era forse una definizione del tutto sbagliata.

Tutti questi temi sono al centro della più tarda Sociologia della religione (rimasta incompiuta in quanto mancano le parti sull’Islam, sul Cristianesimo primitivo e un approfondimento sul Giudaismo antico che aveva in progetto). Essa include, ad apertura del primo volume, L’etica protestante. Quasi tutti i capitoli che la compongono erano stati pubblicati (tra il 1915 e il 1919) sulla rivista che dirigeva (con W. Sombart e E. Jaffé). Anche la parte pubblicata nell’altra opera magna, Economia e Società, è postuma. In quest’opera è approfondito il nesso (storico) tra razionalizzazione e tipi di ordinamenti sociali del mondo, soprattutto per quanto riguarda le forme di potere. Inoltre, è più volte citata la dimensione “evolutiva” delle forme religiose di razionalizzazione del mondo (a partire dalla “magia”), soprattutto nel capitolo dedicato alla sociologia della religione.

Non possiamo qui entrare nel merito di questa dimensione evolutiva, salvo segnalare che si è sviluppata una “Evolutionary Economics” che ha presso seriamente in considerazione l’approccio evolutivo e che questo può, a sua volta, essere collegato in modo importante con la concezione della “distruzione creatrice”. Va sottolineato che questo “darwinismo generalizzato” non è né un riduzionismo biologico né una mera metafora. Ormai è molto noto, non solo alla scienza economica, quanto sia importante l’innovazione (proprio nel senso di “devianza creatrice”) per spiegare una delle caratteristiche di fondo di quella società che ci limitiamo a chiamare “moderna”. Un termine, questo, che di per sé dice assai poco (di moderno si parlava anche nel primo Rinascimento). In ogni caso, l’idea di evoluzione sociale si è diffusa anche in altre discipline, tanto in scienza politica che in sociologia.

Anche nella storiografia vi sono autori che sottolineano il ruolo, spesso decisivo, che è giocato dalla contingenza (una sorta di correlazione imprevedibile tra “caso e necessità”, come dicono i biologi). Vi sono autori (come Paul Veyne) che negano che esista, nella storia concreta, quel “filo rosso” che crede di vedere chi scrive la storia sapendo già come è andata a finire. Da un punto di vista sociologico, tuttavia, è possibile e forse più utile guardare assai meno agli aspetti di modellistica matematica per concentrarsi, da un lato, su una più approfondita concettualizzazione evoluzionistica e, dall’altro lato, sugli insegnamenti della storia comparata. L’importanza della religione per quanto riguarda il rapporto tra uomo e mondo era stata già sottolineata anche da importanti antropologi (sin dai tempi di Marx). Gli studi più recenti confermano questa ipotesi.

Nella nostra prospettiva, la domanda di fondo resta sempre la stessa: “Perché il Miracolo Europeo? Perché non in Cina o in India?”. Era appunto quello che si chiedeva Weber con la sua ipotesi sulla razionalizzazione. Lui pensava che la razionalizzazione creasse una tensione con le altre “sfere sociali”. Nella via, assai divergente rispetto a quelle prese nel resto del mondo e che, da questa tensione, porta all’ascesi intra-mondana puritana, le sfere di vita si separano sempre più dalla religione, per operare solo sulla base della loro propria “legalità”, ovvero orientandosi a una “logica” propria delle “funzioni” di ciascuna di queste “sfere”. Forse si va nella direzione di una crescente meccanicità della vita (la famosa “gabbia d’acciaio”). Può anche essere vero che, dalla prospettiva del singolo uomo, solo la religione o una fede (come “utopia politica”) possa dare un senso alla vita. Non spetta a noi giudicare, anche se sappiamo che le utopie politiche hanno solo prodotto disastri di disumanità.

L’evoluzione non ha né uno scopo né una direzione predeterminata. Essa procede per “salti punteggiati” e ramificazioni: la storia del mondo, come ha ben mostrato Weber con il nesso tra ascesi intra-mondana e razionalità capitalistica che si distacca del tutto dalle sue premesse religiose, va per conto suo. I rami di questa storia evolutiva, e su cui ci troviamo a stare, sono anche il prodotto delle nostre azioni, ma, come disse Marx, non li abbiamo affatto scelti. I loro risultati sono inoltre “effetti emergenti inintenzionali di azioni intenzionali”.

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Nicolò Addario
addario@ciao.ir

Professore ordinario di Sociologia generale. Insegna Teoria del mutamento sociale e dell'innovazione e Comunicazione politica presso l'Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia.

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