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Lezioni dalla Slovacchia

di Vittorio Ferla

 

La vittoria in Slovacchia del partito dell’ex primo ministro Robert Fico, che conquista il primo posto alle elezioni politiche generali di sabato scorso, apre le porte alla formazione di un governo di coalizione che potrebbe minare l’unità occidentale nel sostegno alla resistenza ucraina contro la Russia.

È la conferma – se ancora ce ne fosse bisogno – che il populismo non è una degenerazione che colpisce solo a destra. Robert Fico si iscrive al Partito comunista slovacco nel 1987, dopo la rivoluzione di velluto del 1989 entra nel Partito della sinistra democratica (Sdl) finché, all’inizio del 2000, fonda Smer, Direzione Socialdemocrazia, che vince le elezioni del 2002. Fico diventa primo ministro con il sostegno del Partito nazionale slovacco, una forza nazionalista ed estremista, con la quale governa ben due volte, dal 2006 al 2010 e dal 2012 al 2018. In quell’anno deve dimettersi di fronte alle proteste di massa scatenate dall’omicidio del giornalista Ján Kuciak (e della sua compagna) impegnato a indagare sui casi di corruzione e truffe sui fondi strutturali dell’Unione europea e sui rapporti tra la ‘Ndrangheta italiana e alcuni membri del governo Fico. Negli anni al potere, il leader di Smer ha promosso l’identità nazionale slovacca con lo stile tipico di un estremista di destra ed è stato uno degli esponenti più coerenti del Gruppo di Visegrad, i paesi dell’Europa orientale che hanno rappresentato finora un vero e proprio bubbone nel cuore dell’Europa con la loro idiosincrasia verso le regole dello stato di diritto, la concezione arcaica della famiglia e l’avversione nei confronti dei diritti Lgbtqi+. Fico ha vinto le elezioni “spargendo paura”, ha scritto Beata Balogová, direttrice del quotidiano Sme, in un articolo pubblicato domenica scorsa: “Ha fatto credere a un numero sufficiente di persone che il liberalismo e i diritti umani possano rappresentare una minaccia per i cittadini più grande della corruzione diffusa e della simpatia per il regime di Vladimir Putin”.

Quando nel 2019 fu eletta alla presidenza della Repubblica slovacca Zuzana Čaputová, un’ex avvocata ambientalista leader del partito liberalprogressista ed europeista Progresívne Slovensko – che nel parlamento europeo fa parte di Renew Europe, il raggruppamento promosso dal partito di Emmanuel Macron – sembrò che Bratislava fosse riuscita a mettersi alle spalle il populismo. Negli anni al governo Fico aveva più volte criticato e insultato Čaputová (in un’occasione l’aveva definita «una puttana, una cagna») fino ad accusarla di essere «un burattino» nelle mani degli Stati Uniti e di rappresentare gli interessi di George Soros, il celebre miliardario statunitense di origine ebrea ungherese da anni al centro di teorie del complotto diffuse dai partiti di destra europei. Le accuse di Fico nei confronti di Čaputová si sono intensificate nelle ultime settimane, nel corso della campagna elettorale, fino al punto di convincere la presidente a denunciare per diffamazione l’ex primo ministro. Proprio ieri Čaputová ha dovuto inghiottire il rospo affidando a Fico l’incarico di formare il nuovo governo.

Il più grande motivo di preoccupazione che le cancellerie europee riscontrano nel futuro – terzo – esecutivo Fico riguarda l’atteggiamento verso l’Ucraina: il leader di Smer ha vinto sull’onda del no alla fornitura di armi a Kiev. Una posizione che ringalluzzisce il filo-russo premier ungherese Viktor Orbán e le correnti putiniane presenti in alcuni paesi europei, specialmente in Italia.

Non è un mistero, del resto, che il tempo possa giocare a favore di Vladimir Putin. Il despota russo non si accontenterà mai dell’obiettivo minimo di sottrarre territori all’Ucraina, bensì mira alla conquista completa, anche mediante l’instaurazione a Kiev di un governo fantoccio pro-Mosca. Il Cremlino spera così che il prossimo governo slovacco possa aprire una crepa nel fronte unitario dell’Europa a sostegno dell’Ucraina, lasciando emergere la stanchezza montante delle opinioni pubbliche europee verso le conseguenze della guerra.

Sarà così? Il rischio c’è, ma non tutto fila liscio come potrebbe augurarsi Putin. Lo Smer di Robert Fico ha ottenuto solo il 22,9%: è il primo partito ma per raggiungere la maggioranza ne servono altri due. Il principale alleato potrebbe essere il partito Hlas (Voce) di Robert Pellegrini, classificato terzo. Hlas però nasce proprio in contrapposizione con Fico per mantenere l’impronta socialdemocratica e sugli aiuti all’Ucraina si è mostrato molto meno ostile. L’altro possibile alleato potrebbe essere quel Partito nazionale slovacco (Sns), con il quale Fico aveva già formato il governo due volte, nel 2006 e nel 2016. Questa coalizione a tre avrebbe nel Parlamento monocamerale di 150 seggi la maggioranza di 79 deputati.

Gli analisti però non escludono sorprese. Nella coalizione potrebbe rientrare il Movimento dei cristiani democratici (Kdh) che Pellegrini considera più compatibile rispetto ai nazionalisti del Sns. In più, bisogna registrare una tensione tra Smer e il gruppo dei socialisti all’Europarlamento: la possibilità di un’espulsione di Fico in caso di alleanza con i nazionalisti o in caso di torsione antieuropea e antiucraina non si può escludere. Inoltre, il no alle forniture di armi potrebbe rivelarsi una tigre di carta per il semplice fatto che la Slovacchia di armi non ne ha più, avendo già svuotato il proprio arsenale bellico a favore di Kiev.

La prova dell’europeismo di Bratislava si dovrà semmai valutare più avanti, quando si tratterà di decidere il rifinanziamento della European Peace Facility — lo strumento fuori dal bilancio Ue usato per ripagare gli Stati per il sostegno militare a Kiev — oppure quando bisognerà approvare nuove sanzioni contro Mosca. In entrambi i casi è richiesta l’unanimità. E Fico potrebbe fa valere il suo potere di veto. Il che mostra ancora una volta l’urgenza della riforma delle norme che regolano il funzionamento delle istituzioni europee. A dicembre, infine, il Consiglio europeo dovrà decidere se avviare l’iter dell’allargamento con Ucraina e Moldavia. Insomma, la faglia dei paesi orientali è ancora profonda e agita il futuro dell’Unione europea.

Ma Putin non se la passa meglio. Il 19 settembre scorso il presidente degli Stati Uniti Joe Biden ha incontrato i leader di Kazakistan, Kirghizistan, Tagikistan, Turkmenistan e Uzbekistan all’Assemblea generale delle Nazioni Unite per approfondire le relazioni strategiche ed economiche. Il 26 e 27 settembre scorsi a Tashkent, capitale dell’Uzbekistan, si è tenuta la conferenza dei capi di stato maggiore dei paesi dell’Asia centrale e meridionale e gli Usa al fine di aumentare la collaborazione militare. Il che significa che ben tre paesi su sei della Csto, la “Nato” di Putin, stanno flirtando con gli Usa al fine di garantire la propria sicurezza nazionale contro l’ossessione imperialista del Cremlino. Insomma, se l’Europa è ancora troppo divisa, la Russia è sempre più isolata.

Vittorio Ferla
vittorinoferla@gmail.com

Giornalista, direttore di Libertà Eguale e della Fondazione PER. Collaboratore de ‘Linkiesta’ e de 'Il Riformista', si è occupato di comunicazione e media relations presso l’Ufficio di Presidenza del Consiglio regionale del Lazio. Direttore responsabile di Labsus, è stato componente della Direzione nazionale di Cittadinanzattiva dal 2000 al 2016 e, precedentemente, vicepresidente nazionale della Fuci. Ha collaborato con Cristiano sociali news, L’Unità, Il Sole 24 Ore, Europa, Critica Liberale e Democratica. Ha curato il volume “Riformisti. L’Italia che cambia e la nuova sovranità dell’Europa” (Rubbettino 2018).

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