
05 Nov L’innovazione nell’arte? Non basta la libertà del web
di Simona Bartolena
In questo periodo di quarantene e di immobilità forzata, l’Arte ha cercato vie di fuga trovando nel mondo del web – nell’Oltremondo, come lo definirebbe Alessandro Baricco (A. Baricco, The Game, Einaudi, 2018) – possibili alternative alla realtà concreta. Sono nati mostre virtuali, fiere virtuali, congressi virtuali, gallerie virtuali… E artisti virtuali. I social e la rete sono stati letteralmente invasi da proposte e “occasioni espositive”, spesso totalmente deregolamentate, non sempre credibili e qualche volta davvero poco interessanti. Mi è capitato più volte di leggere articoli e saggi che esaltavano questa nuovo tipo di fruizione artistica come una possibile nuova rivoluzione e, soprattutto, come un modo per liberare il mondo delle arti (in questo caso visive, ma credo si tratti di un fenomeno più ampio) dal dispotismo di pochi “baroni” che controllano con il loro potere la scena culturale mondiale. Digitando nei motori di ricerca “arte e innovazione” appaiono numerosi articoli che vanno in questa direzione.
Il web può davvero essere la nuova frontiera dell’arte?
Poiché trovo questo punto di vista di un disarmante qualunquismo (oltre che ben poco rispettoso nei confronti dei professionisti dell’arte), ho pensato a lungo a quali fondamenti potesse avere un pensiero simile e quanto il web e il suo mondo intangibile e apparentemente libero potesse farsi garante di una reale svolta democratica delle espressioni artistiche e di una vera rivoluzione. Possiamo davvero considerare questo fenomeno un passaggio fondante verso una nuova epoca per le arti? Un’epoca all’insegna di una maggiore libertà e di indipendenza dalle leggi del mercato? A mio avviso purtroppo no.
Concordo pienamente sul fatto che la scena artistica contemporanea è per alcuni aspetti soggiogata al potere di pochi che tengono le redini della celebrità e della fortuna di un artista. Concordo pienamente sul fatto che l’arte (soprattutto quella contemporanea) debba tornare a comunicare a un pubblico più ampio e uscire dalla gabbia dell’autoreferenzialità. Ma non credo che l’apparente libertà dell’oltremondo possa davvero fare qualcosa per cambiare la situazione. Può, invece, abbassare drammaticamente il livello qualitativo delle ricerche artistiche, portando sul medesimo piano artisti motivati e con un percorso serio e coerente alle spalle e dilettanti allo sbaraglio che si sentono novelli Picasso, artisti di talento e dalla spiccata personalità con artisti semplicemente presuntuosi e quasi sempre privi di qualità.
Gli artisti eccellenti non nascono dal nulla
Sento già la domanda (c’è sempre): “e chi decide chi sta nella prima e nella seconda categoria?”. Qui si apre un dibattito probabilmente senza possibilità di conclusione che suggerisce, però, una questione importante che va chiarita alla radice. Nessuno si permetterebbe di operare chirurgicamente un essere umano senza aver fatto studi e tirocini in medicina, nessuno costruirebbe un palazzo senza essere geometra o architetto… Ma chiunque pensa di poter parlare di arti visive, giudicarle, addirittura realizzarle, quasi che il mondo dell’arte sia solo riconducibile alla sfera dell’estro personale, senza necessitare di alcuna base storico-scientifica e di alcuna conoscenza tecnica.
Il binomio “genio e sregolatezza” e l’idea che l’istinto debba essere l’unica guida sono retaggi di una cultura pseudo-romantica che ancora impregna il nostro pensiero e che spesso ci induce in clamorosi errori di valutazione. Artisti eccellenti “nati dal nulla” ce ne sono stati pochi (e quelli che ci sono stati si ricordano, appunto, per la loro straordinaria unicità) e critici d’arte intelligenti che non hanno condotto studi di storia dell’arte credo che ne esistano ancor meno… Molto meno degli eserciti di curatori che già si muovevano nel mondo reale e che ora impazzano in quello virtuale. Non sono d’accordo, quindi, con l’ipotesi che lo spostamento nel web e nei social costituisca un grande passo avanti verso la libertà delle arti: web e social sono uno strumento prezioso, come gli elettrodomestici, utilissimi ma solo per certi aspetti del quotidiano.
La rivoluzione dell’arte europea tra Otto e Novecento
Riflettendo sul tema ho voluto ripercorrere i passi rapidi e coraggiosi che l’arte ha fatto e le porte che ha aperto nel periodo che va dalla metà dell’Ottocento al primo conflitto mondiale. Innovazione. Direi, anzi, rivoluzione. Conquista di libertà espressive, sovvertimento del sistema, costruzione di una nuova grammatica, superamento dei confini, sperimentazione di nuovi materiali… Nulla è rimasto intento nei sessant’anni più spericolati che la cultura europea abbia mai conosciuto, forti di una scena artistica irrefrenabile ed esplosiva, che non si è affidata a uno strumento innovativo (come oggi il popolo dei social) ma che ha cercato in se stessa le risorse, portando avanti sfide sempre più ardite e straordinarie.
L’arte si evolve da sempre per contrapposizioni: il rinnovamento e il cambiamento sono fattori necessari al progresso artistico (e probabilmente non solo artistico). Ogni tendenza ne genera una nuova che le si oppone, imponendosi a propria volta con canoni spesso agli antipodi di quelli precedenti. Un processo continuo e inarrestabile. Ma quanto è accaduto tra Otto e Novecento supera di gran lunga, quanto a energia, forza dirompente e volontà sovversiva, la normale successione di stili che aveva caratterizzato il gusto e la produzione artistica nei secoli precedenti.
L’invenzione dell’astrattismo: Kandinskij osserva Monet
Si pensi solo all’invenzione dell’astrattismo. Concordo con Stefano Zuffi che in una conversazione affermò che le due più grandi rivoluzioni conosciute dall’arte sono state quella di Giotto (che ha riportato l’uomo nella sua fisicità e quotidianità nella pittura) e l’astrattismo (che quella fisicità l’ha annullata, elevando l’arte alla forma più pura).
Oggi tendiamo a dare per scontato quello che in realtà fu un passo da gigante dell’arte: una dichiarazione di indipendenza dalla realtà, in cerca di una sublimazione spirituale dell’arte. Togliere il soggetto iconografico al dipinto per costruire emozioni esclusivamente con linee, superfici e colori, dialogando con la musica, costituisce già di per sé un’innovazione straordinaria, ma la conquista si fa ancor più degna di attenzione quando si osserva come essa dipenda da un effetto domino, un susseguirsi di pensieri, azioni, ricerche che hanno condotto con una rapidità impressionante alla nascita dell’astrattismo o alla creazione dei Ready Made dadaisti, altro punto di non ritorno della storia dell’arte.
Non è un caso che Kandinskij nelle sue memorie racconti come abbia avuto la prima intuizione per la sua ricerca astratta osservando i Covoni di Monet. Con il beneficio del dubbio di una certa costruzione letteraria, trattandosi di un ricordo “a posteriori”, il passo resta interessante: “…All’improvviso mi trovavo per la prima volta di fronte a un Dipinto rappresentante un pagliaio, come diceva il catalogo, ma che io non riconoscevo come tale. Questa incomprensione mi turbava e mi indispettiva; trovavo che il pittore non aveva il diritto di dipingere in modo così impreciso; sentivo sordamente che in quell’opera mancava l’oggetto (il soggetto), ma con stupore e sgomento constatavo che non solo essa sorprendeva, ma si imprimeva indelebilmente nella memoria e si riformava davanti agli occhi nei suoi minimi particolari. Tutto ciò restava confuso in me e non potevo ancora prevedere le conseguenze naturali di questa scoperta. Ma quello che uscì chiaramente fu la potenza incredibile, per me nuova, di una tavolozza che superava tutti i miei sogni. La pittura mi apparve come dotazione di una potenza favolosa, ma inconsciamente l’“oggetto” trattato nell’opera perdette per me gran parte della sua importanza, come elemento indispensabile” (V. Kandinskij, Sguardi sul passato, edizioni SE, 1999).
Il rapporto Kandinskij / Monet è interessante anche perché riconduce a un elemento importante dell’innovazione operata da queste generazioni: il presunto conflitto con i padri. Nonostante le esternazioni provocatorie di molti (anche Monet stesso in gioventù affermava tra i tavoli del Nouvelle Athènes di voler bruciare il Louvre e sappiamo che Modigliani liquidò con parole di sufficienza la ricerca di Renoir che aveva appena incontrato a Cagnes) il rispetto per i maestri del passato è ben raramente negato. Molti artisti di inizio secolo fanno visita ai vecchi impressionisti e rendono loro omaggio, sebbene siano certi che la loro grammatica sia ormai obsoleta e che sia necessario intraprendere nuove strade. L’arte retinica degli impressionisti non interessa più ma gli esponenti del movimento sono riferimenti su cui fondare a propria volta una nuova rivoluzione.
Édouard Manet, ovvero l’inizio dell’arte moderna
Molti storici dell’arte concordano che si possa simbolicamente datare l’inizio dell’arte moderna al 1863, l’anno in cui Édouard Manet realizzò ed espose per la prima volta Le dèjeuner sur l’herbe. La tela, un capolavoro, è ritenuta un punto di non ritorno nell’approccio al fare arte, momento di rivoluzione e apertura verso una nuova stagione. Senza dubbio Manet ha un posto di riguardo tra coloro che accesero la miccia per l’evoluzione dell’arte nei decenni successivi; come lui soltanto Paul Cézanne costituì un riferimento così importante (direi imprescindibile) per le nuove generazioni. Ma Cézanne arrivò alla sua inimitabile e geniale cifra stilistica guardando (e ammirando), a propria volta, lo stesso Manet: un amore non ricambiato, ma sicuramente fondamentale per la maturazione della ricerca del maestro di Aix. Dunque possiamo tornare a Manet, per cercare in lui l’origine di una scintilla capace di produrre un’esplosione memorabile.
Édouard Manet non voleva scandalizzare. Egli desiderava piacere agli ambienti ufficiali ed essere apprezzato dalla critica. Non intendeva “ringhiare ai borghesi” come il rabbioso Gustave Courbet, non era engagé come Honoré Daumier, non aveva ancora le visionarie intenzioni di cambiare la pittura seguendo solo le ragioni dell’occhio dei futuri impressionisti, quasi tutti più giovani di lui e molto più spregiudicati nell’esibire un nuovo stile. Manet era un borghese, di buona famiglia, con una buona cultura personale nonostante una pessima carriera scolastica alle spalle; aveva amici giornalisti, scrittori, poeti; amava le belle signore ed era il re dei caffè e dei luoghi della mondanità…
E soprattutto considerava i maestri del passato come le colonne della propria ricerca, il punto di partenza per le proprie opere. I riferimenti a Tiziano, Velázquez, Goya, Raffaello, Vermeer sono costanti nella sua produzione: evidentissimi per noi, ma allora chiari solo a pochi eletti e incomprensibili per la critica ufficiale e il grande pubblico che, abbagliati dallo scandalo dei soggetti, non si accorgeva della classicità delle citazioni.
L’innovazione di Manet parte da qui: dal radicale cambiamento nel rapporto con i maestri, non più considerati come modelli da copiare, imitare ed emulare – come si insegnava in Accademia – ma da studiare con attenzione per coglierne l’essenza più profonda, reinterpretandoli poi con una grammatica contemporanea. La Venere di Tiziano e Le Mayas di Goya si trasformano così nella modernissima Olympia, prostituta parigina ingioiellata secondo la moda del tempo; il Giudizio di Paride di Raffaello e il Concerto Campeste di Tiziano diventano un conviviale déjeuner all’aperto.
Ed è proprio questa attualizzazione del soggetto a dare scandalo: le Veneri di pasta di mandorle (come le definì Zola in E. Zola, Nos peintres au Champ-de-Mars, Parigi, 1867) dipinte dal seducente pennello di Alexandre Cabanel vincevano il Salon a dispetto del loro conturbante erotismo; il nudo non idealizzato di una parigina contemporanea, accompagnato da figure maschili in abiti borghesi o inserito in contesti ambigui fa parlare tutta la città e raccoglie le feroci critiche e le accuse di immoralità di buona parte della critica.
Modernità a tutti i costi senza tradire i maestri di riferimento: un’attitudine che Manet pagò cara, diventando l’eroe di una nuova generazione di artisti più scapestrati di lui ma non ottenendo mai un sincero apprezzamento dal sistema ufficiale dell’arte, a cui egli ambiva.
Alla ricerca della libertà (che porta all’innovazione)
Allievo di Couture ma non iscritto in Accademia, Manet è anche uno dei primi artisti a trascurare il consueto iter formativo di un artista. In quegli anni cresce sensibilmente il numero di scuole private presso cui formarsi, alcune delle quali gestite da pittori che insegnano anche nelle aule accademiche. Anche questa perdita di autorevolezza dell’Accademia in favore di situazioni più libere e differenziate è un importante segnale di un cambiamento in atto (in pochi decenni saranno sempre più diffusi i casi di artisti senza formazione classica, professionisti di altri settori approdati alla pittura per vie inusuali). I giovani impressionisti si incontrano nelle aule di Gleyre o dell’Académie Julien: spesso litigano con i propri maestri, mettono in dubbio i loro metodi, apprendono ciò che devono ma poi fuggono, verso una libertà e in cerca di un linguaggio non stereotipato, che esca dalle maglie del gusto imperante.
Nella Parigi di quegli anni al Salon trionfavano i Pompiers, i quadroni di storia e mitologia dipinti alla maniera di Cabanel, Bouguereau, Chassériau, Gérôme (per citare i nomi più noti e significativi), artisti che oggi ben pochi conoscono e che allora erano i principi incontrastati della scena artistica e del mercato. Sebbene sia un grave errore declassare tutto l’accademismo al ruolo di antagonista dell’impressionismo – come invece succede di consueto –, è comunque indubitabile che la storia non ha dato ragione ai critici dell’epoca. Per la prima volta gli artisti apprezzati e blasonati al tempo non corrispondono a quelli amati e portati in trionfo dalla storia dell’arte dei decenni successivi.
Nei secoli precedenti, con le dovute e ovvie eccezioni, l’artista stimato in vita lo è anche per le generazioni successive. Piero della Francesca, Donatello, Michelangelo, Raffaello, Tiziano, Rubens, Velázquez, Tiepolo, David, Canova ricevevano incarichi da committenze ufficiali (con cui qualche volta si scontravano, è vero, ma l’assunto non cambia) ed erano considerati maestri tanto quanto li consideriamo noi. Perfino Caravaggio, la cui fama conobbe un momento di oblio nei secoli successivi e la cui esistenza fu costellata di scandali e guai legali, ebbe tra i propri committenti personaggi di potere come Scipione Borghese, il Cardinal del Monte e Federico Borromeo. Anche Delacroix, che non si tirò mai indietro di fronte a temi scomodi e la cui pittura presenta forti accenti di novità, ricevette le attenzioni del mondo ufficiale.
A difendere Manet, invece, ci sono solo un gruppo di coraggiosi intellettuali e poeti visionari (Zola, Baudelaire e Mallarmé, ad esempio), qualche collezionista borghese particolarmente illuminato e un manipolo di giovani artisti dalle idee rivoluzionarie. C’è uno strappo, uno scollamento, tra il gusto comune (e il mercato) dell’epoca e quella che noi reputiamo la grande pittura del tempo ed è la prima volta che questo sfasamento si manifesta in modo così evidente. Ecco un altro punto che porta all’innovazione. Questi artisti hanno lavorato, studiato, dipinto senza in plauso della critica e del pubblico. Hanno dipinto credendo nel loro fare arte e ignorando (pur con una certa sofferenza) ciò che si diceva di loro, fino al punto di dipingere per se stessi, senza una committenza, portando a compimento in via definitiva un processo che si era avviato in epoca Romantica, quando gli artisti avevano cominciato a non lavorare su commissione ma a realizzare il quadro nella speranza di poterlo poi vendere. In passato pochissimi avevano osato tanto: un atto di libertà straordinario.
La moltiplicazione delle gallerie d’arte
Da allora il sistema dell’arte è radicalmente mutato; un cambio di attitudine che si intreccia, in un rapporto evidente di causa-effetto, con la nascita della figura del gallerista e l’apertura di spazi espositivi alternativi a quelli ufficiali. Courbet e Manet, del resto, avevano già affrontato in passato il problema dell’esclusione dei loro dipinti dal Salon ufficiale allestendo dei padiglioni autonomi e finanziati privatamente per esporre al pubblico le loro opere e gli Impressionisti avevano manifestato la propria esistenza proprio mediante un’esposizione auto-gestita in uno spazio privato, il vecchio atelier del noto fotografo Nadar.
Dagli anni Settanta si moltiplicano le gallerie d’arte, il mestiere di mercante cambia radicalmente e spuntano addirittura altri Salon, quali quello des Indépendentants e quello d’automne, voluti e organizzati dagli artisti stessi. Anche chi non incontra alcun favore e non riesce a vendere le proprie opere, non smette certo di dipingere, trovando al proprio fare arte motivi personali, ineludibili, quasi una necessità interiore. Non occorre arrivare al caso estremo e celebratissimo di Vincent Van Gogh; non sono pochi gli artisti che pur non ricevendo il sostegno della critica, nemmeno quella più aggiornata e preparata, hanno continuato caparbiamente a dipingere convinti che la storia avrebbe dato loro ragione.
Nasce la figura dell’artista come oggi, in un certo senso, vorremmo fossero tutti gli artisti. L’abbraccio tra arte e vita è totale. L’artista è artista in assoluto. Senza compromessi. Lo è anche quando non trascura il mercato: ne cerca il favore ma non scende a compromessi. A questo proposito basterebbe l’esempio di Picasso.
Picasso, un punto di non ritorno nella storia dell’arte
Istrionico, geniale, egocentrico, uomo terribile ma artista straordinario, Pablo Picasso ha sempre giocato bene le proprie carte, riuscendo a navigare sicuro nel mare agitato delle Avanguardie. Poche distrazioni, eccessi calibrati, nessun errore di valutazione. Eppure ha fatto la rivoluzione. Se Le déjeuner sur l’herbe di Manet ha segnato un punto di non ritorno nella storia dell’arte, la seconda boa l’ha sicuramente fissata proprio lo spagnolo con le sue Demoiselles d’Avignon, talmente innovative da fare terra bruciata di tutte le grammatiche, dei canoni estetici, dei modelli formali che le hanno precedute.
Egli ha sempre giocato al rilancio: non si è mai fermato, non ha mai rallentato, non ha mai considerato quanto fatto se non per superarlo, scegliere un’altra direzione, sperimentare altrove, pur restando incredibilmente se stesso. Dal periodo blu alla stagione cubista a Guernica, lo spagnolo ha solo aperto strade, raccogliendo stimoli dagli altri e trasformandoli in Picasso. Tale è la sua debortante personalità che si rischia di restarne abbagliati e di non guardare a fondo cosa c’era intorno a lui. Aprendo lo sguardo, anche soltanto nella stretta cerchia legata alla rivoluzione cubista, si incontrano personaggi che hanno prodotto opere sconcertanti, apportando continue innovazioni non solo allo stile e al linguaggio artistico, ma anche alle tecniche, ai materiali, alle interpretazioni iconografiche, al modo stesso di intendere il fare artistico e di considerare l’opera d’arte.
Duchamp manda in tilt il sistema dell’arte
La Section d’or di Jacques Villon è una cerchia tutto sommato poco nota ai non addetti ai lavori, ma basterebbe da sola a definirci cosa significhi davvero la parola innovazione in arte. Restando nell’ambito nella famiglia di Jacques Villon, il pensiero va subito al più radicale degli innovatori di inizio Novecento, suo fratello Marcel Duchamp, il giocatore di scacchi che cambiò l’idea di arte aprendo la strada ai linguaggi concettuali. La sua Ruota di bicicletta, esposta all’Armory Show del 1913, supera un nuovo confine e segna un altro punto di non-ritorno. L’oggetto, già protagonista delle ricerche cubiste e futuriste, diventa Ready made. Opere quali lo Scolabottiglie o la notissima Fontana firmata R. Mutt e datata 1917 (ma anche altri oggetti meno noti) aprono definitivamente le porte alla demolizione degli ultimi codici che ancora limitavano la creatività. Quella di Duchamp è senza dubbio una provocazione, ma una provocazione non gratuita, direi quasi necessaria, capace di mandare in tilt un sistema minandolo alle fondamenta.
I Ready Made di Duchamp sollevano domande importanti, alle quali è forse impossibile dare risposte certe: cos’è un’opera d’arte? Chi decide che un oggetto o un manufatto lo siano o meno? Chi può essere definito artista? L’opera d’arte deve essere unica? Se le azioni avanguardistiche precedenti conservavano ancora un legame con il passato – non fosse altro per l’idea dell’azione del dipingere e dello scolpire, dell’intervento della “mano dell’artista” –, i Ready Made di Duchamp (e più in generale dell’area Dada) tolgono all’opera d’arte la sua unicità e rendono l’intervento dell’artista un atto mentale e non manuale, frutto di un pensiero intellettuale e non di un processo pratico.
È innegabile che la ricerca di Duchamp abbia fornito una giustificazione forte a molti non-artisti e provocatori poco intelligenti e abbia sdoganato il concetto che qualsiasi cosa possa essere un’opera d’arte. Come tutte le rivoluzioni anche questa ha prodotto i suoi inevitabili danni collaterali. Ma ha anche liberato definitivamente l’arte dalle pastoie dell’accademismo, dell’ufficialità, delle regole… E se ci sono al mondo molti figli illegittimi di Duchamp che non gli rendono affatto giustizia, ci sono e ci sono stati anche artisti che hanno saputo fare tesoro dell’innovazione duchampiana traducendola in ricerche motivate e importanti, che hanno aperto a loro volta nuove strade.
Quello che dobbiamo alla rivoluzione delle Avanguardie
Tra la seconda metà dell’Ottocento e i primi decenni del Novecento l’arte ha abbattuto confini, urlato la propria libertà, rivoluzionato il sistema. Lo ha fatto con una carica innovativa e un’energia spaventosa e con risultati che sono diventati punti di riferimento ineludibili per le generazioni successive. Difficile fare di meglio.
A guarda bene tutto è stato già più o meno detto e fatto in quegli anni: da quadrati neri a scolabottiglie come sculture, da performance eversive a libri di poesia visiva, ogni espressione del contemporaneo è in un modo o nell’altro riferibile all’universo delle Avanguardie storiche. Ma l’arte ha le sue risorse e sa aggiornarsi, trasformarsi, adattarsi ai tempi. Quello che non deve perdere è la voglia di rinnovarsi e rinnovare. Nel 1916 Hermann Bahr (H. Bahr, Espressionismo, Silvy Edizioni, 2012) definì l’espressionismo “un grido”: rispetto all’impressionismo, figlio di una visione esclusivamente retinica, questo nuovo linguaggio aveva aperto la bocca all’uomo, permettendogli di urlare il proprio disagio e il proprio dissenso. Oggi l’arte è ancora capace di gridare, di dire la sua, di essere un faro o quantomeno una miccia? Faccio fatica a credere che la versione contemporanea del grido espressionista siano le urla sguaiate di molti personaggi sbraitanti sui social. Per lasciare un segno non basta urlare, occorre anche avere qualcosa di interessante da dire.
l web e i social sono strumenti preziosi: sarebbe bello sfruttarli per portare una vera innovazione.
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