
28 Apr L’Integrazione europea e l’Ordine politico internazionale: processi, contradizioni, sviluppi
di Mario Campli
Introduzione
La Integrazione europea è essa stessa una componente dell’Ordine Politico Internazionale. Quando il Trattato sull’Unione Europea afferma:
«Le Alti Parti Contraenti istituiscono tra loro un’Unione Europea, in appresso denominata “Unione”, alla quale gli Stati membri attribuiscono competenze per conseguire i loro obiettivi comuni» (art. 1 del T.U.E.);
si colloca in un ambito ben preciso, quello del cosiddetto: Ordine politico internazionale.
Da una parte – mentre procede nelle sue fasi e con le sue specifiche costruzioni – la Integrazione tra Stati del continente Europa contribuisce autonomamente a definirlo e, anche, a modificarlo. Dall’altra reagisce alla sua specifica configurazione, quando:
«Nelle relazioni con il resto del mondo l’Unione afferma i suoi valori e interessi, contribuendo alla protezione dei suoi cittadini. Contribuisce alla pace, alla sicurezza, allo sviluppo sostenibile della Terra, al rispetto reciproco tra i popoli, al commercio libero ed equo, all’eliminazione della povertà e alla tutela dei diritti umani, in particolare cel minore, e alla rigorosa osservanza e allo sviluppo del diritto internazionale, in particolare della Carta delle Nazioni Unite» (art. 3, comma 5 del T.U.E).
Integrazione Europea:1950/51-1989/90 e Ordine Politico Internazionale della guerra fredda.
Quando Robert Schuman, il 9 maggio 1950 pronunciò la sua «Dichiarazione» fu immediatamente evidente che il primo passo della Integrazione consisteva nel lasciarsi definitivamente alle spalle la guerra tra gli Stati del Continente-Europa:
“La pace mondiale non potrà essere salvaguardata se non con sforzi creativi, proporzionali ai pericoli che la minacciano. Il contributo che un’Europa organizzata e vitale può apportare alla civiltà è indispensabile per il mantenimento di relazioni pacifiche. La Francia, facendosi da oltre vent’anni antesignana di un’Europa unita, ha sempre avuto per obiettivo essenziale di servire la pace. L’Europa non è stata fatta: abbiamo avuto la guerra.
Rafforzò questo concetto, precisandolo con esplicite menzioni, di Paesi-Stati e di settori-ambiti da integrare
“L’ unione delle nazioni esige l’eliminazione del contrasto secolare tra la Francia e la Germania: l’azione intrapresa deve concernere in prima linea la Francia e la Germania. […] Il governo francese propone di mettere l’insieme della produzione franco-tedesca di carbone e di acciaio sotto una comune Alta Autorità, nel quadro di un’organizzazione alla quale possono aderire gli altri paesi europei. […] La creazione di questa potente unità di produzione, aperta a tutti i paesi che vorranno aderirvi e intesa a fornire a tutti i paesi in essa riuniti gli elementi di base della produzione industriale a condizioni uguali, getterà le fondamenta reali della loro unificazione economica”.
Come è noto – mentre si procedeva alacremente verso il Trattato di Parigi (Belgio, Francia, Germania Ovest, Italia, Lussemburgo e Paesi Bassi firmano il 18 aprile 1951 la costituzione della «Comunità europea del carbone e dell’acciaio» -Ceca) – negli stessi anni si registra il fallimento della «Comunità europea difesa-Ced». Lo stesso Schuman si oppose e fece fallire le mediazioni in corso del ministro italiano (Carlo Sforza) – in seguito direttamente tra Alcide De Gasperi e il primo ministro francese René Plevel (assistito da Jean Monet), con la partecipazione di dirigenti Nato e Usa. Fu il riarmo della Germania a costituire un impedimento non sormontabile (il tutto tra il maggio 1950 e l’agosto del 1954), in presenza di un Ordine politico Internazionale della guerra fredda, già instauratosi, all’indomani del conflitto mondale.
Difficile dire se e come l’“Ordine politico internazionale” sarebbe stato influenzato da una
“Integrazione della Difesa” fra sei Stati dell’Europa Continente, aperta ad altre adesioni. E’ certo che la Integrazione, denominata Unione Europea, è adesso non positivamente caratterizzata da questa mancata integrazione; la cui cifra sta in questi numeri e la cui portata politico-strategica sta di fronte al mondo:
“Secondo lo «Stockholm International Peace Research Institute – Sipri», nel 2021, la spesa militare della Russia è stata di 65,9 miliardi di dollari, superiore a quella di ognuno dei grandi Paesi dell’Ue (Francia 56,6 miliardi, Germania 56 miliardi, Italia 32 miliardi e Spagna19 miliardi). Tuttavia, senza considerare il Regno Unito (che ha avuto una spesa di 88,1 miliardi) la somma spesa militare dei quattro grandi Paesi dell’Ue sarebbe di 163,6 miliardi, cioè 2,5 volte superiore alla spesa russa. Eppure, non abbiamo una difesa europea” (S. Fabbrini, Incertezze tedesche e futuro dell’Europa, in “Il Sole 24 Ore 29 gennaio 2023).
L’ Integrazione europea fissò una tappa rilevante nel 1957, con i sei Paesi fondatori che firmarono i «Trattati di Roma – Comunità Economica Europea»; e procedette tra significative realizzazioni sul versante delle Istituzioni (costituzione dell’Assemblea parlamentare europea-1958; poi, 1962 denominata esplicitamente “Parlamento Europeo”, ma senza ancora l’elezione diretta) e corpose costruzioni sul versante del mercato (abolizione dei dazi doganali interni sui prodotti industriali e adozione della tariffa doganale comune esterna-1968). Il primo allargamento (9 membri) nel 1973, determinò la spinta ad una sorta di prima “democratizzazione” della Integrazione con l’elezione diretta nel giugno 1979 del Parlamento Europeo: i cittadini dei nove Paesi membri (i sei più Danimarca, Irlanda e Regno Unito) elessero, direttamente a suffragio universale, 410 deputati europei.
Questo inizio della Integrazione di una parte del continente Europa evolve in un contesto di “Ordine Politico Internazionale che segna alcuni passi strategici – mentre le ferite nelle società che squassate dalla seconda guerra mondiale erano ancora aperte – con la redazione e la firma della Carta delle Nazioni Unite, entrata in vigore il 24 ottobre 1945 e l’istituzione del Tribunale internazionale dell’Aja: due atti che hanno rivoluzionato il Diritto internazionale – l’articolo 2 obbliga gli Stati a risolvere le dispute con mezzi pacifici.
“Fu lo shock delle violenze della guerra a generare questa rivoluzione. Nelle parole toccanti del Preambolo si riflette l’orrore di fronte alle vittime della seconda guerra mondiale. Centrale è l’appello a «unire le forze e ad assicurare mediante …l’istituzione di sistemi, che la forza delle armi non sarò usata salvo che nell’interesse comune». […] Questa attenzione alle vittime della guerra spiega da un lato l’abolizione dello ius ad bellum ossia il nefasto ‘diritto’ degli stati sovrani di guerreggiare a piacimento; ma anche il fatto che la dottrina su base etica della guerra giusta non sia stata rinnovata, bensì abolita, a parte il diritto alla difesa dell’aggredito. Le varie misure elencate, nel Capitolo VII contro le aggressioni sono dirette contro la guerra in quanto tale e questo esclusivamente nel linguaggio del diritto. Perché a tal fine è sufficiente il contenuto morale insito nel moderno diritto internazionale” (J. Habermas, Europa tra guerra e pace, Rep-Longform, la Repubblica 19 febbraio 2023).
Gli anni ’80 e il triennio cruciale 1989-91
Gli anni ’80 sono stati anni di un passaggio strategico, sia per la ‘Integrazione Europea’ sia per l’ “Ordine Politico Internazionale della guerra fredda”.
Sulla scena politico-istituzionale arrivano, infatti, ed operano leader, forze politiche e poteri (anche oscuri), che determineranno sviluppi rilevanti per il decennio e oltre.
Sul versante Est scompare dallo scenario politico e geopolitico Tito; era in carica dal 1953. Josip Broz, noto come Tito, era nato alla fine del 1800; aveva inventato e reso strategico la Jugoslavia facendone una Repubblica federale, con grandi tragedie umane, instaurando un regime comunista sui generis, con forti difformità dal comunismo sovietico in campo economico e anche riguardo ai rapporti con le autorità religiose. Da 1948 prese le distanze dall’ l’Unione Sovietica e divenne leader riconosciuto di un gruppo di Stati che via via acquisirono un rilievo politico strategico nell’ordine politico internazionale, denominato «Stati-Paesi non allineati»: una caratteristica molto significativa nell’ Ordine politico internazionale della guerra fredda. La sua scomparsa va considerato come un cambiamento nello scenario globale sia per il ruolo svolto, sia per l’elemento di instabilità successiva segnata dalla disgregazione della Jugoslavia e per i conflitti generati, ancora irrisolti, che pesano sia sulla Integrazione europea sia sull’ Ordine politico internazionale.
Rimanendo sullo stesso versante Est, gli anni ’80 registrano uno sconvolgimento nella Polonia: l’insorgenza del sindacato indipendente “Solidarnosc”, diretto dall’operaio di Danzica Lech Walesa; l’ascesa al potere politico di un generale – Wojciech Jaruzelski – che diventa primo ministro e tratta una tregua con il sindacato, riuscendo, così, a scongiurare una quasi certa invasione Sovietica. Nel 1985 assumerà la carica di presidente del Consiglio di Stato della Polonia. Questo sconvolgimento sociale e politico interno allo Stato-Polonia, divenne contestualmente un rilevante cambiamento anche all’interno dell’Ordine politico internazionale e gettò un primo “seme” di una sua futura collocazione nella Integrazione europea in itinere.
Diamo un rapido sguardo dentro il “centro” dell’Ordine politico Internazionale. Nel 1982, a Ginevra, iniziarono i negoziati fra Usa e Urss per un controllo e una riduzione dei missili strategici. Intanto muore Leonid Brežnev (nato in Ucraina), segretario generale del Pcus e leader dell’Urss. Dopo un rapido passaggio di Jurij Andropov, ex capo del Kgp, nel 1985 viene eletto segretario del Pcus Michail Gorbačëv, che subito incontra a Ginevra, in un vertice sulla riduzione degli armamenti, Ronald Reagan. Negli Usa, infatti, era già iniziata l’“era” Reagan, nel 1980; sarà rieletto (e con lui il già vice-presidente, George H. W. Bush) nel novembre del 1984. Questo binomio (con il passaggio al successore G.H.W. Bush) ha costituito uno degli elementi caratterizzante l’Ordine Politico Internazionale della guerra fredda; segnato dai negoziati Usa-Urss (Reagan e Gorbačëv si erano di nuovo incontrati nel 1986 a Reykjavik), conclusi a Ginevra, dove nel 1987 veniva firmato l’ “Intermediate Range Nuclear Forces Treaty” (l’amministrazione Trump cancellerà successivamente l’adesione). Ad esso faranno seguito trent’anni di accordi “Start” (“Start 1”, siglato il 31 luglio 1991 – dopo il collasso dell’Urss rimase in vigore tra Russia, Bielorussia, Kazakistan e Ucraina; “Start 2”, siglato nel 1993 tra Bush e El’cin; il “New Start”, che sostituiva i precedenti, firmato da Barak Obama e dal presidente russo Dmitri Medvedev, l’8 aprile 2010 – entrato in vigore nel 2011 e rinnovato da Biden e Putin nel febbraio 2021, scadenza nel 2026.
(La guerra scatenata della Russia contro l’Ucraina il 24 febbraio 2022, però, ha alzato un’altra delle sue onde minacciose ed ha colpito anche il New Start (“Strategic Arms Reduction Treaty”) che congela a 1.550 per parte le testate atomiche e a 700 i missili per trasportale- tali limiti sono stati raggiunti da ambedue le parti nel 2018). Prima con l’impedimento della ripresa dei controlli, dopo la interruzione concordata a causa della pandemia e poi con il blocco alla commissione bilaterale per l’applicazione del Trattato prevista per il novembre prossimo. Infine, nella pubblica dichiarazione di Putin effettuata nella manifestazione del 23 febbraio 2023, alla vigilia del primo anniversario della invasione – presente la stessa Duma. Ambedue le parti si sono affrettate a precisare che si tratta di “sospensione” e non di “cancellazione”. Come è noto il Trattato scade nel 2026. Ma l’Ordine politico internazionale del dopo-dopo guerra fredda, registra in ogni caso un ulteriore deterioramento).
Riprendendo il filo della ricostruzione della fase del dopo-guerra fredda, Gorbačëv, dopo la firma “Intermediate Range Nuclear Forces Treaty” (1987) accelera il suo tentativo di rinnovamento dell’Urss, lanciando la “Perestrojka” (programma di “Ristrutturazione” dell’economia) con l’interfaccia della “Glasnost” (programma di “Apertura” nella politica e nella società civile). Il tutto tra importanti contrasti all’interno del suo partito unico, di cui conservava ancora la carica di Segretario generale. Per memoria, è il caso di ricordare che sempre nel 1986, il 26 aprile, esplose il reattore a Černobil (Ucraina), innalzando – con i suoi morti, con la nube radioattiva che arrivò fino ai territori dell’Europa del Sud – il livello del sentimento di insicurezza e di un contesto di disfacimento del sistema Sovietico. Pur tra dissensi interni e inizi di sommovimenti di tipo autonomistico- nazionalistici nelle repubbliche che compongono la Unione Sovietica, Gorbačëv consegue due risultati che vanno segnalati per il rilievo che hanno direttamente nell’Ordine politico internazionale: lo storico incontro a Mosca con Ronald Reagan (quasi a conclusione del suo mandato – gli succederà a breve G.H.W. Bush) e il ritiro dall’Afghanistan, dopo otto anni di guerra.
In Oriente, nel 1988, si concluse, dopo nove anni, la guerra fra Iraq e Iran: ambedue si dichiararono vincitori; nel frattempo, l’autocrazia della Repubblica islamica (insediatasi nel 1979) aveva potuto rafforzare la sua presa autoritaria sulla società civile, che ancora in questi giorni fa registrare sofferenze, esecuzioni e morti soprattutto nelle generazioni giovani e per le donne. Nello stesso tempo, si era oltremodo inasprito il conflitto palestinese con Israele. Israele aveva invaso il Libano, occupandone la zona meridionale. Il leader palestinese Arafat e tutto lo stato maggiore dell’Olp aveva dovuto lasciare il Paese e rifugiarsi a Tunisi; in Libano, intanto, era iniziata una lunga guerra civile.
Nel mezzo di questi caotici anni ‘80, la ‘Integrazione Europea’ segnò una tappa di grande rilievo: il «Trattato – Atto unico europeo» -1986/1987.
Il contesto in cui matura, l’Atto Unico, è quello delle crisi economiche degli anni Settanta che, tra l’altro, stavano creando nella opinione pubblica un calo di simpatia verso il “Mercato Interno”, il vero pilastro della integrazione fino ad allora realizzata. Un sentimento che trasmise una sorta di fibrillazione politica nei Governi, che accelerò i passaggi politici – con vere e proprie schermaglie – tra il Consiglio Europeo di Stoccarda (Dichiarazione solenne sull’Unione europea- detta – Dichiarazione di Stoccarda, giugno1983) e il Consiglio Europeo di Milano (giugno 1985). Nel corso del quale, su iniziativa della Germania Ovest, subito appoggiata dalla Francia, e con una inedita votazione a maggioranza – 7 favorevoli e 3 contrari – si decise di convocare una “Conferenza Intergovernativa” per una prima modifica dei Trattati di Roma, in riferimento alle competenze delle Istituzioni comunitarie, a nuove attribuzioni alla Comunità e la realizzazione di un “autentico” Mercato Interno. Il frutto della “Conferenza” fu: il Trattato «Atto unico europeo», firmato il 17 febbraio 1986 a Lussemburgo ed entrato in vigore il 1º luglio 1987. Torneremo, verso la conclusione su questo passaggio politico della Integrazione europea.
Nel frattempo era stato nominato presidente della Commissione il francese Jacques Délors; che – seconda inedita circostanza – con tre presidenze consecutive (1985/89; 1989/93; 1993/95) ebbe la possibilità, unita alle sue indubbie capacità, di segnare un vero e proprio secondo tempo della Integrazione Europea. Alcuni storici della Integrazione Europea, riferendosi a questo periodo, parlano persino di “primo embrione di Unione politica” (cfr. G. Strozzi e R. Mastroianni, Diritto dell’Unione Europea. Parte istituzionale, Giappichelli, 2016).
Il triennio cruciale 1989-90-91
Quando si evoca il 1989, si va con la memoria alla sera del 9 novembre. A Berlino Est era in corso una conferenza stampa tenuta da Herr Gunter Schabowski, portavoce del governo comunista della RDT. C’erano state in quelle settimane molte manifestazioni di piazza, in diverse città della Germania comunista: Lipsia, Dresda, Magdeburgo e, quella stessa data, a Berlino Est. I manifestanti non chiedevano la fine dell’ “Ordine politico internazionale della guerra fredda”, ma almeno i visti per uscire e rientrare nella RDT. Verso le sette, le comunicazioni di Gunter Schabowski erano terminate. Riccardo Ehrman, corrispondente dell’Ansa, pone la più ordinaria delle domande: “Da quando entreranno in vigore le nuove disposizioni”? Gunter Schabowski resta un poco perplesso, torna a dare un’occhiata ai suoi maledetti fogli, dove non c’è una data. E azzarda: “Per quanto ne so, ab sofort-da subito”. Erano le sette di sera del 9 novembre 1989. In una mezzora la notizia viene data anche dalle due televisioni di regime. L’accurata regia del partito comunista che avrebbe voluto gradualmente, nei giorni successivi, avviare alcune riforme, concedere le autorizzazioni agli espatri e intensificare una intesa con la «Repubblica federale di Bon» (il punto più strategico e i contatti erano già in corso) per una sorta di “confederazione” tra i due Stati (con la successiva adesione della RDT – come tale – alla «Comunità europea», ma non alla NATO), salta d’un sol colpo. Migliaia di persone si recarono ai vari consistenti cancelli di ferro, presidiati e chiusi lungo il muro. Le guardie, ignare, non sanno che fare. Avevano ricevuto, però, nei giorni precedenti l’ordine tassativo di non usare le armi. Aprono, pertanto i cancelli e inizia una nuova storia. Non solo per la Germania dell’Est, non solo per la Germania tutta, che si riunificherà nel giro di soli undici mesi.
Lo choc – per la “Integrazione-Comunità Europea” di dodici Stati membri (le elezioni del Parlamento Europeo, a suffragio universale, dei 12 Paesi membri vi erano state a Giugno) – ci sarà, ma non per il crollo (apertura) del Muro, bensì scaturito dai successivi undici mesi.
E fu per gli Stati membri della “Comunità Europea” uno choc rilevantissimo: svelò una sottovalutazione grave del peso politico della Integrazione e della sua necessaria declinazione in corrispondenza con l’ “Ordine Politico Internazionale del dopo guerra fredda”.
Di seguito, vogliamo dare alcune brevi ma significative testimonianze di questa carenza:
-Altiero Spinelli: «Condannare apertamente il rovinoso miraggio della riunificazione»: in “Tedeschi al bivio” (cfr. “La Germania e l’unità europea”, a cura di Sergio Pistone, Napoli 1978).
-François Mitterand: «Dopo la caduta del muro di Berlino, François Mitterand cercò di impedire o quanto meno ritardare la riunificazione della Germania andando al offrire, nel dicembre 1989, l’appoggio della Francia all’ormai agonizzante governo di Berlino Est» (cfr. A. Bolaffi, Cuore tedesco… Donzelli, 2013).
-Francia/Ministero degli Affari Esteri: «La riunificazione getta un’ombra gigantesca sulla Germania che è troppo potente per non diventare dominante ed è troppo a lungo offesa per non sentire il bisogno di una riabilitazione anzi rivincita» (Jacques Blot, direttore Dipartimento europeo).
-Silvio Fagiolo, storico: «La prospettiva di una Germania unita e il venir meno della minaccia sovietica modificano il cotesto internazionale in cui aveva operato Jean Monet» (L’dea d’Europa nelle relazioni internazionali, Franco Angeli edizioni, 2009).
Tutto sembra tornare all’agosto 1954, al fallimento della “Comunità Europea Difesa-Ced”; con l’aggravante di essere a trentotto anni dal trattato Ceca (1951) e nonostante i grandi passi fatti nella “Integrazione” (vedasi da ultimo il “Trattato-Atto Unico Europeo”, 1986-87).
In effetti, la Germania e tutta la Integrazione – durante i cruciali undici mesi di fine 1989 e 1990 – hanno dovuto ingoiare una tale mole di storia e con una velocità tale da non consentire, né ai tedeschi né agli altri Stati della Integrazione, di elaborare una completa e adeguata strategia all’altezza dello choc storico rappresentato dalla Germania riunificata.
La riunificazione tedesca avvenne il 3 ottobre 1990. Lo stato riunificato mantenne il nome che era della Germania Ovest: «Repubblica Federale Tedesca», Stato Membro della Comunità Europea e poi della Unione Europea.
L’ “Ordine Politico Internazionale” della guerra fredda non era ancora concluso: il golpe a Mosca
Nel 1989 il contesto dell’Ordine politico internazionale della guerra fredda fece registrare anche il ritiro dell’Armata Rossa dai paesi satelliti dell’Urss e dall’Ungheria, Cecoslovacchia, Germania Est, Polonia. Cadono i regimi comunisti e si tengono le prime libere elezioni. E in Bulgaria e Romania si registrano scontri fra esercito e manifestanti che chiedevano le dimissioni dei governi comunisti e libere elezioni, come avvenuto in altri paesi dell’ex blocco comunista (fra novembre e dicembre si contano migliaia di morti in tutta la Romania; il giorno di Natale, Ceausescu viene catturato e fucilato). Durante il 1990 tutte e quindici le repubbliche che costituivano l’URSS tennero le loro prime libere elezioni. Nel febbraio 1990, il Comitato centrale del Pcus accettò di rinunciare al suo stato di Partito Unico; mancava soltanto il formale scioglimento del Urss.
Il 28 giugno era stato dichiarato sciolto il Comecon ed il 1º luglio il Patto di Varsavia, sciogliendo così i vincoli dei paesi esteri fino allora satelliti. Il 20 agosto 1991 la Russia era pronta a firmare il Nuovo Trattato d’Unione. Ma l’“Ordine Politico Internazionale della guerra fredda” non era ancora concluso; restava ancora da compiere l’ultimo colpo di coda.
Scrive Vittorio Emanuele Parsi:
“E’ il 19 agosto 1991, lo scopo dei golpisti (fra i quali figurano: il vicepresidente, il primo ministro, il ministro dell’interno, il ministro della difesa, il capo del KGP e una serie di alti ufficiali dell’Armata rossa) è impedire a Gorbaciov, il giorno successivo (il 20 agosto 1991) la ratifica del nuovo “Trattato dell’Unione”, che avrebbe dovuto dare vita a una «Unione delle repubbliche», libere e liberamente (non più socialiste né sovietiche), del tutto rinnovata e diversa. Il golpe provocò una forte reazione popolare, guidata da Boris Eltsin, allora presidente della Federazione Russa in una Unione Sovietica dai confini incerti (le repubbliche baltiche avevano già proclamato l’indipendenza l’anno prima e Armenia, Georgia e Moldavia erano in procinto di farlo). Eltsin, mobilitando unità militari fedeli e vasti settori di popolo, provocò il fallimento del golpe e la liberazione di Gorbaciov”.
Continua Parsi:
“Rispetto al golpe del 1991 è da segnalare come il vertice del KGB – la stessa organizzazione che ha formato Vladimir Putin come spia e l’ha poi catapultato nelle posizioni apicali del potere russo – fosse “magna pars” del tentativo di impedire la trasformazione in senso democratico dell’URSS.
Quando Putin, nel suo sesto indirizzo presidenziale alla Duma russa, il 25 aprile 2005, definì la fine dell’Unione delle Repubbliche come «la più grande catastrofe geopolitica del ventesimo secolo» dimostrava di essere perfettamente allineato con la cultura politica di quegli esponenti del KGP che avevano tentato con la forza di ostacolare quell’esito. Ma, per nulla sbadatamente, ometteva di dire che proprio il golpe dei conservatori aveva provocato l’accelerazione e la irreversibilità di quella tragedia”. (“Il posto della guerra e il costo della Libertà”, Saggi Bompiani, ottobre 2022).
Il 25 dicembre 1991, alle ore 18, Gorbačëv si dimise da presidente dell’Unione Sovietica e dichiarò abolito l’ufficio, inoltre conferì tutti i poteri e l’archivio presidenziale al presidente della Russia Boris El’cin. Alle 18,35 la bandiera sovietica sopra il Cremlino fu ammainata e sostituita con il tricolore russo. Il 26 dicembre 1991, il Soviet delle Repubbliche del Soviet Supremo dell’URSS ratificò le decisioni del presidente dimissionario dell’URSS e dissolse formalmente l’Urss. La dissoluzione fu resa definitiva nella notte tra 31 dicembre 1991 e il 1º gennaio 1992.
Il 31 dicembre 1991, dopo un periodo burrascoso – tra autoritarismo, democratura e autocrazia crescente (spesso sostenuto anche leader e capi di stato europei e degli Usa – causa l’emergenza di un’economia nazionale vicina alla rovina, con l’aggravante di una spregiudicata ‘cura dimagrante’ da parte di la nuova categoria socio-politica degli oligarchi in ascesa dentro una vasta corruzione pubblica), Boris El’cin si dimise da presidente russo, indicando Vladimir Putin come suo successore.
Inizio dell’Ordine Politico Internazionale del dopo- guerra fredda e Integrazione Europea 1992-2019 (data delle ultime elezioni del Parlamento Europeo)
L’ Ordine Politico Internazionale del dopo-guerra fredda, vengono delineati da Sergio Fabbrini in questi termini:
“Con la fine della Guerra Fredda (1991) una visione liberale delle relazioni internazionali si è via via affermata e il sistema internazionale si manifestava caratterizzato sempre di meno dalla lotta per il potere politico-militare tra gli stati e sempre di più dalle interdipendenze economiche tra di essi” (…). La “trasformazione era dovuta a: il consolidamento di regimi internazionali istituzionalizzati, le cui norme e disincentivi tendono ad addomesticare le pulsioni aggressive degli stati; la presenza di una pluralità di attori internazionali non-statali (imprese multinazionali, istituzioni finanziarie, organizzazioni non governative) che partecipano al processo che conduce a decisioni globali, così riducendo la possibilità della rivalità diretta tra gli stati; a consolidati regimi internazionali, per cui le dispute tra stati e tra attori privati sono state risolte attraverso negoziati basati sul reciproco riconoscimento dei loro interessi legittimi, oppure ricorrendo alle decisioni di magistrature internazionali (quando necessario)”. (cfr. La guerra mette in crisi l’Europa delle patrie, Il Sole 24 ore 4 settembre 2022; anche: La lezione di De Gasperi: l’Europa unita e il ritorno della guerra, Il sole-24 ore – 14 agosto 2022).
Questa istantanea non nega, ovviamente, una persistente problematicità insita nella tipologia del dopo guerra fredda, che Stefano Ceccanti – anche sulla base degli sviluppi più recenti del dopo-dopo guerra fredda così descrive:
“Il mondo post 1989 non è un mondo privo di minacce, l’espansione delle democrazie (gli unici regimi pacifici: nessuna democrazia ha mai attaccato un’altra democrazia) non è irreversibile né scontata. Alcune sue affermazioni ed espansioni provocano reazioni violente di regimi autocratici per il timore di contagio come nel caso dell’aggressione russa all’Ucraina. Siamo in un’“era della divergenza” (come ben la ricostruisce V. E. Parsi nel suo recente libro su “Il posto della guerra e il costo della libertà” [sopra citato; di V.E. Parsi, si veda pure: “Il 24 febbraio -dopo un anno di guerra-]con l’Ucraina, tutti più forti, in “ Il Foglio24 febbraio 2023); che porta con sé la difficoltà di utilizzare l’Onu come sede efficace perché il Consiglio di sicurezza col potere di veto a potenze aggressive non è ‘contraignant’, come si era già visto all’epoca dell’aggressione serba in Kossovo a cui si dovette giustamente far fronte, in via sussidiaria, con l’intervento Nato. Avremmo dovuto ricordarcene anche nel 2014, quando le deboli reazioni in termini di sanzioni alla prima aggressione russa all’Ucraina con la conquista della Crimea finirono per dare a Putin l’illusione di poter ripetere atti analoghi senza pagare un prezzo significativo” (S. Ceccanti, Pace, pacifismo, resistenza. I doveri dell’oggi nel mondo della divergenza. Il realismo cristiano e costituzionale, un’arma contro i rischi del massimalismo etico, in “Il Foglio 6 febbraio 2023).
E l’Integrazione europea-Unione europea?
Dopo il 1989, “la semantica del discorso europeo era radicalmente cambiata: non era più (solo) una risposta alle tragedie del passato ma una proposta strategica per affrontare le sfide del futuro” (Angelo Bolaffi, Cuore tedesco…, Donzelli, 2013). E’ in questo contesto che la “Integrazione europea” che continua il suo percorso, anche con rilevanti confronti politico-istituzionali e con una sequenza di «Trattati», via via approvati (da Maastricht,1982, a Amsterdam, 1997, a Nizza, 2001), non riesce a trovare quello slancio all’altezza delle sfide che l’Ordine Internazionale del dopo-guerra fredda. Vengono, pertanto, puntate tutte le speranze sul «Trattato che adotta una Costituzione per l’Europa» (Roma 2004). Forse non del tutto ben riposte; la “denominazione-Costituzione”, molto evocativa, creò un’aspettativa non ben fondata: ancora molte incertezze restavano nella forma, nella autonomia e nella sovranità della Integrazione. Neppure in quel Testo/Atto fondamentale c’erano i caratteri di una “democrazia oltre lo stato”. Per contrasto, nelle società civile di grandi “stati fondatori” si crearono opposizioni per una eccessiva “integrazione-senza democrazia”. In ogni caso la sconfitta ai due referendum (Francia e Paesi Bassi, maggio-giugno2005) fermarono, per un importante periodo, gli sviluppi. L’approdo al Trattato di Lisbona (firmato nel 2007 ed entrato in vigore nel 2009) mostra – stante le molte continuità rispetto al progetto di Costituzione – che la questione democratica della Integrazione restava ancora all’ordine del giorno.
Nel 2004, intanto – nel contesto di una accesa ed irrisolta discussione tra due linee: se prima approfondire la Integrazione, anche con una definizione coerente delle Istituzioni e della forma di governo, e poi allargarla oppure il contrario – si procedette al più rilevante allargamento del territorio dell’Unione e del numero degli Stati Membri (dieci nuovi Paesi, in gran parte dell’Est Europa). Una conquista ed anche una nuova sfida; alla quale i successivi contrasti sulla delicata questione dello Stato di diritto, proprio in una parte dei nuovi Stati membri dell’Est Europa dimostrano come proprio la forma del Governo dell’Unione e la sua democrazia intergovernativa – oltre che le maglie strette della non autonomia fiscale e di Bilancio unionale derivato da trasferimenti statali/governativi – non erano adeguate alle esigenze di un’autonoma democrazia sovranazionale; come peraltro il Trattato stesso evoca: «I cittadini sono direttamente rappresentati, a livello dell’Unione, nel Parlamento europeo»; «Il funzionamento dell’Unione si fonda sulla democrazia rappresentativa» (articolo 10, comma 2 e 1 del Trattato sull’Unione Europea).
La Integrazione Europea: 2019/2024 – e l’“Ordine Politico Internazionale del dopo-dopo-
guerra fredda” – febbraio 2022: mondo della divergenza e della discontinuità.
“Quando si getta un sasso nello stagno si mettono in moto onde che non si sa dove si fermano”. L’espressione è di Sergio Fabbrini, sopra citato. Il riferimento è all’aggressione e alla guerra della Russia contro l’Ucraina e alla fine conseguente dell’“Ordine Politico Internazionale del dopo-guerra fredda.
Sergio Fabbrini continua con estrema chiarezza:
“L’aggressione russa dell’Ucraina sta producendo onde imprevedibili all’interno della Unione europea. Occorre andare oltre la Ue intergovernativa, ma in quale direzione? Per avere una politica europea dell’energia – o della Difesa, o del controllo delle frontiere – bisogna dotare l’Ue di risorse autonome e di una capacità autonome”. (cfr. La guerra mette in crisi l’Europa delle patrie, citato)
Nello scenario dell’“Ordine politico internazionale del dopo-dopo guerra fredda”, peraltro, la questione democratica si pone sempre di più nella forma del confronto tra “Democrazie e Autocrazie”. In questo contesto la «Integrazione Europea» è di fronte, come non mai prima, alla necessità di definire e realizzare compiutamente la sua «Democrazia oltre lo Stato».
A tale proposito, afferma Stefano Ceccanti:
“Scaturiscono i doveri dell’oggi nel ‘mondo della divergenza’: potenziare la difesa comune europea, la gamba europea della Nato che non si affermò nel 1954 per la reazione dei francesi, proseguire e rafforzare la stretta collaborazione con gli Stati Uniti e le democrazie consolidate. Suona alquanto antistorica la contrapposizione tra Unione Europea e Stati Uniti, quando le istituzioni europee sono sorte dentro un disegno di stretta collaborazione euro-atlantica, in una visione multilaterale in cui quelle due realtà non possono essere viste come due poli separati. La divergenza con le autocrazie impone la convergenza tra le democrazie, gli unici regimi che, con tutti i loro limiti reali, possono però connettere pace, libertà e giustizia.” (ivi, citato).
Né può passare inosservato che l’“Ordine politico internazionale del dopo-dopo guerra fredda” incrocia e ingloba processi di discontinuità che necessitano -ancora prima dei Poteri per governarli – di un Pensiero per com-prenderli, e pensare il futuro nei processi di lunga durata e nella discontinuità che li ingrandiscono:
“A partire dalle tre grandi rivoluzioni – agricola, industriale e tecnologica – che modificano irreversibilmente gli assetti storici precedenti, a segnare la nostra epoca è l’incrocio che a fine novecento lega la vittoria del capitalismo e del crollo dell’Unione sovietica. […] Ovviamente il passaggio dal locale al globale non può che essere graduale; e qui il ruolo decisivo dell’unità europea. Ma il riferimento ultimo è la comunità mondiale, intesa come ciò che, aldilà di legittime differenze e di inaccettabili ineguaglianze, congiunge la specie umana in una rete di bisogni e di opportunità valida per tutti. Ciò determina la necessità di un Patto per l’Italia e per l’Europa, proiettata su scala quantomeno occidentale, capace di opporre alla macchina del diseguale creata dal capitalismo finanziario la costruzione di spazi, sempre più ampi, di beni comuni. […] Soprattutto in una fase in cui i conflitti identitari e nazionali stanno spaccando il mondo con esiti imprevedibili (Roberto Esposito, Il nuovo ordine mondiale dei progressisti, in: “la Repubblica, 8 febbraio 2023).
La “Democrazia oltre lo Stato”
Nella situazione attuale c’è una discrasia seria, non più procrastinabile, tra alcuni fondamentali principi democratici – alcuni già affermati nel Trattato – e il reale “Governo della Unione”. Oso porre la “questione democratica”, in base a questa affermazione di Jürgen Habermas:
“Autodeterminazione democratica significa che i destinatari di leggi cogenti, ne sono al tempo stesso gli autori”.
E’ una affermazione-costatazione che evidenzia come alla “questione democratica”, sono connesse: una “questione istituzionale” (le Istituzioni adeguate e proprie) e una “questione politica” (la forma di Governo).
Una comunità sovranazionale destatalizzata
Soffermiamoci, seppure brevemente, sulla natura della costruzione: «Democrazia oltre lo stato».
Recentemente, in un pregevole saggio (“Occidenti e Modernità-vedere un mondo nuovo”, Il Mulino, 2023), Andrea Graziosi (paragrafo intitolato: “Pericoli e problemi del progetto europeo”) afferma:
“Altri problemi, e forse più rilevanti, derivano dalla natura stessa del progetto europeo che, specie dopo la nascita dell’Unione nel 1992, ha acquistato tratti molto ben definiti. Non si tratta infatti solo di un tentativo di costruzione statuale ancora in corso, e quindi naturalmente mal formato e poco solido, ma del tentativo di costruire un tipo specifico di Stato” (ivi, pag.194; il corsivo è nostro).
Jürgen Habermas ha più volte analizzato il carattere e la natura della «Unione politica» (denominazione che fa sintesi della triplice “questione” sopra richiamata: democratica, istituzionale, politica), centrando la sua analisi sulle “esigenze di legittimità di una comunità sovranazionale destatalizzata” (J. Habermas, Questa Europa è in crisi, Laterza, Bari 2012, p. 44).
Prima di tutto egli ha inteso:
“Liberare il pensiero dalla suggestione di una dipendenza concettuale della Sovranità popolare dalla Sovranità statale, che impedisce di guardare avanti”.
Successivamente, ha rilevato:
“La divisione [“gli articoli 9-12 del Trattato di Lisbona non lasciano nulla a desiderare sotto questo aspetto”, osserva esplicitamente Habermas] del soggetto costituente in «Cittadini» e «Stati» è una qualificazione importante. I cittadini, infatti, partecipano in modo duplice alla costituzione della comunità politica di livello superiore, nel loro ruolo di futuri cittadini dell’Unione e come appartenenti a uno dei popoli dei rispettivi Stati”.
Poi conclude:
“La sovranità divisa fornisce il metro delle esigenze di legittimazione di una comunità sovranazionale destatalizzata”.
“Nell’Unione politica – completamente diversa da un «Superstato» – gli Stati membri continuano a garantire il livello (già materialmente raggiunto) di diritto e di libertà, conservando il ruolo più importante rispetto alle articolazioni subnazionali di uno stato federale. Lo Stato federale è il modello sbagliato” (ivi, passim, pp. 45- 60).
E’ in questa prospettiva che gli Stati membri possono mettere fine sia ad una “membership avversariale” (la dizione è di Sergio Fabbrini) – un approccio molto sfruttato nel conflitto partitico e politico, dentro i Paesi aderenti: “Bruxelles non può dettarci le regole”; “modello confederale contro modello federale”, ecc. – sia procedere alle modifiche dello stesso Trattato per delineare e definire la “Democrazia oltre lo Stato” compiuta; incardinando, tra l’altro, nella sua sovranità una autonomia fiscale e di bilancio.
La premessa a questa democratizzazione profonda è una operazione-verità. Un esempio per tutti: non si può invocare un “debito comune”, in capo al Bilancio della Unione (per aiutare le proprie imprese “nazionali” e per altre “policies” strrategici: la Difesa comune, la politica estera comune, ecc.) e nello stesso tempo disquisire su “modello confederale”, in opposizione ad una “Integrazione” autonoma e sovrana, come quella di una “Democrazia oltre lo Stato”.
Maggio 2024: elezioni del “Parlamento Europeo-Costituente”
L’orologio del Consiglio italiano Movimento Europeo segna quotidianamente i giorni che mancano alle prossime elezioni del Parlamento nel maggio 2024.
Allo stato attuale degli equilibri politici presenti nel Parlamento Europeo e di quelli in atto tra gli Stati Membri della Unione, non ci sono le condizioni per determinare, in termini giuridico e istituzionali (modifica del Trattati), il passaggio verso una compiuta “Democrazia oltre lo Stato”.
Né serve tornare all’interrogativo che aveva interessato il confronto politico, prima del grande allargamento a 10 Paesi nel 2004: “Necessità che la riforma dei Trattati preceda l’allargamento? Fare precedere una Unione allargata alla Unione più integrata e coesa o il contrario?
Dopo che la guerra è tornata nel mezzo del continente Europa (espressione efficace, ma che non deve nascondere nella nostra memoria le guerre post-jugoslave fratricide!), le due sfide vanno coniugate insieme: completare la Democrazia oltre lo Stato e completare la Integrazione.
L’appuntamento ed il luogo politico-istituzionale è, ormai, il “Parlamento Europeo” 1024-2029.
La maturazione politico-strategica connessa è iscritta proprio nelle drammatiche fratture segnate dalla guerra nell’Europa continente iniziata il 24 febbraio 2022 (le avvisaglie si erano verificate già nel 2014: annessione della Crimea).
«Trattato-Atto Unico – la Democrazia oltre lo Stato».
Evoco questa tappa della “Integrazione” – «Atto Unico Europeo», approvato nel 1986 ed entrato in vigore nel 1987 – per la sua indubbia portata: in essa furono, tra l’altro, modificati per la prima volta i “Trattati di Roma”.
Nel contempo, però, è necessario contestualizzare, questa tappa, per quanto attiene alla procedura voluta dagli Stati membri che optarono per la forma del “Trattato intergovernativo”, formalizzando una sorta di rifiuto a confrontarsi con il Parlamento, che cinque anni prima, il 15 febbraio 1984, aveva approvato il “Progetto di Trattato che istituisce l’Unione Europea”, con 237 voti a favore, 32 contrari e 34 astensioni. Un Progetto ispirato da Altiero Spinelli che era membro della Commissione per gli Affari Istituzionali e avrebbe ricoperto la carica di presidente della medesima Commissione dal 26 luglio 1984 fino alla morte, avvenuta il 23 maggio 1986. Non si trattava, benintesi, di una mancata buona educazione istituzionale, ma di scelte politiche precise. Altiero Spinelli aveva ben chiaro cosa era avvenuto e dove stava l’ostacolo. La Commissione per gli Affari Istituzionali del Parlamento Europeo, prima di procedere all’elaborazione del Progetto, aveva diffuso un “Libro Bianco” sui tentativi precedenti, falliti e sulle loro cause e sugli agenti.
La via del “mandato costituente”
Spinelli era per questo deluso, ma per nulla scoraggiato. E ai docenti dell’Università di Padova, Marco Mascia e Antonio Papisca (in una telefonata registrata il 7 febbraio 1986) espresse la sua delusione ed indicò una possibile via d’uscita:
«Dobbiamo guardare ad un punto preciso d’arrivo e dire: “fra tre anni circa ci saranno ancora delle elezioni europee, queste devono essere fatte per un’assemblea che deve avere il mandato costituente, in grado cioè di fare – utilizzando anche i nostri lavori e naturalmente tutto quello che ci vuole – la Costituzione dell’Unione Europea, da sottoporre non alla ratifica degli Stati nazionali, non alla demolizione dei diplomatici, ma alla ratifica dei Parlamenti” […]. Dobbiamo insistere per il mandato costituente e trovare quindi una maggioranza di consensi popolari che ne investa il Parlamento. Chiediamo che si faccia un referendum semplice e chiaro nella enunciazione del quesito, per esempio: “volete voi che il Parlamento Europeo prossimamente eletto abbia il mandato di fare la Costituzione dell’Unione Europea? o non lo volete?”. Non si può chiedere al popolo di esprimersi su una formula del tipo “volete una Costituzione o no?” o del tipo “volete voi l’Europa o no?”, perché non significa niente. Piuttosto, ripeto, “volete voi che questo mandato sia dato al Parlamento europeo o no?”, che è una domanda che ha una sua compiutezza, ma che ha anche una sua facilità di comprensione. Insomma, la responsabilità di tutti i compromessi, che eventualmente si rendessero necessari, se la assumerà il Parlamento eletto. […] Chiediamoci fin d’ora: che senso avranno le elezioni europee del 1989 se saranno uguali a quelle del 1979 e del 1984?».
(cfr. M. Campli-A. Pascale, Semestre Europeo Costituente. La democrazia oltre lo Stato, Arcadia Edizioni, maggio 2019, pp. 13-20).
Spinelli morì qualche mese dopo quella telefonata. Ma attraverso quella conversazione aveva dettato il suo testamento politico. Un testamento che venne pienamente raccolto dal Parlamento italiano: si fece così un “Referendum di indirizzo” (non essendo previsto dalla Costituzione, con l’accordo unanime di tutti i partiti e gruppi parlamentari, fu approvato una legge costituzionale che lo rese possibile), nello stesso giorno in cui si tennero le elezioni per il Parlamento europeo, il 18 giugno 1989. Gli elettori ne compresero il senso e votarono affermativamente: l’88,03% dei votanti. Il loro voto non ebbe conseguenze concrete, in quanto espressione del solo Paese -Stato membro: Italia. Ma quanto peso, invece, potrebbe avere un Referendum della stessa forma sopra ricordata, lanciato dall’attuale Parlamento Europeo, da tenersi contemporaneamente alle elezioni del maggio 2024, in tutti i 27 Paesi e Stati Membri della Unione Europea?
A livello europeo l’istituto referendario non è contemplato nei trattati vigenti. Ma nulla può impedire al Parlamento di chiedere alla Commissione, una proposta finalizzata all’acquisizione di un “mandato costituente” da parte dei cittadini dell’Unione, in contemporanea al voto per l’elezione del Parlamento Europeo 2024-2029.
«Volete voi che il Parlamento Europeo, prossimamente eletto, abbia il mandato di riformare i Trattati e definire per questa Unione Europea la forma e la sostanza di una “Democrazia oltre lo Stato”?».
Per questa Integrazione/Unione Europea, il livello adeguato di “Riforma” – a fronte dell’Ordine politico internazionale del dopo-dopo guerra fredda, che già ha manifestato un elevato tasso di instabilità e pericolo – per iniziativa del Parlamento Europeo-Costituente, che sarà eletto nel maggio 2024. Con decisione solenne, da prendere nel giorno di insediamento, il Parlamento Europeo 2024-2029 dovrà deliberare una «Seduta parlamentare costituente»; nel corso della quale, i cittadini e le cittadine dei Paesi europei membri della Unione, “direttamente rappresentati nel Parlamento europeo”, potranno acquisire e introiettare un nuovo inizio della “Integrazione europea”, adeguato all’ “Ordine politico internazionale del dopo-dopo guerra fredda”: quella della Democrazia oltre lo Stato.
Il nuovo Balancing Act: sovra-nazionalizzare e rinazionalizzare.
“La guerra russa in Ucraina ha innescato una miccia che si chiama «disordine mondiale». Siamo entrati in una terra incognita, in particolare per l’Europa. Ci vuole un nuovo balancing act per sovra-nazionalizzare le politiche della sicurezza e rinazionalizzare quelle di interesse domestico. Bruxelles deve fare ciò che le capitali nazionali non possono fare. E viceversa. Per attraversare la terra incognita del nuovo disordine mondiale occorre sperimentare nuove strade e non già percorrere quelle vecchie” (S. Fabbrini, Nel nuovo disordine mondiale la Ue deve cambiare, Il Sole 24 ore, 26 febbraio 2023).
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