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L’Unione europea è pronta a raccogliere la sfida di Pechino?

di Michele Marchi

 

La pandemia ha accelerato una serie di evoluzioni politiche, economiche e sociali che dispiegheranno i loro effetti sul medio-lungo periodo.

Il risultato forse più evidente della crisi sanitaria globale è proprio connesso al termine globalizzazione: è andata in frantumi l’illusione delle forze autoregolanti connesse al mercato e al liberismo economico. E contestualmente si è mostrata tutta la necessità improrogabile di una qualche forma di governance o di “governo del mondo”.

All’interno di questo contesto generale è poi giunta l’ultima chiamata per l’Unione europea, lacerata da quindici anni di crisi continue.

Ebbene, da un punto di vista delle dinamiche interne all’Europa a 27 una scossa è giunta. Dopo i primi stentati passi, la risposta alla pandemia è stata all’altezza. Evitando di atteggiarsi ad “anime belle e pure”, sarebbe ingiusto parlare di una Ue immobile. I segnali di vita sono giunti, nella doppia versione sovranazionale ed intergovernativa. I negoziati su Next Generation EU ci diranno, nelle prossime settimane, se siamo di fronte al canto del cigno del processo di integrazione o all’araba fenice che risorge dalle sue ceneri.

Contemporaneamente e strettamente connessa a questa si gioca un’altra partita, quella del ruolo dell’Ue nella cosiddetta nuova Guerra fredda. Rispetto a questa, le relazioni euro-atlantiche, anche grazie all’attuale inquilino della Casa Bianca, sono giunte al loro punto più basso, all’interno di una lunga parabola discendente, iniziata a metà anni Settanta e mai realmente interrottasi. Oggi però il nodo strategico più controverso e complicato riguarda l’altra faccia della medaglia, quella del rapporto Ue-Cina. È su questo tavolo che oggi si giocano le concrete possibilità europee di porsi come “terza forza” o “terza via” nel contesto del sempre più complesso e pericoloso strutturarsi del G2 sino-americano.

Prima dell’esplosione pandemica la situazione tra Pechino e Bruxelles era ben fotografata dalle espressioni emerse in occasione dell’ultimo vertice ufficiale di un anno fa. Pechino “rivale sistemico” per il Vecchio Continente, volontà però di lavorare “per scrivere regole comuni” e infine richiamo europeo al rispetto dei “diritti umani”. Tutto molto formale ma anche parecchio scontato. La realtà concreta era dominata da qualche sfumatura in più. Lo “shopping europeo” di Pechino dell’ultimo decennio è economico quanto politico. Come definire altrimenti le grandi acquisizioni cinesi un po’ ovunque in Europa nel settore tessile, siderurgico ma anche dell’eccellenza tecnologica? E cosa dire del dumping sistematico operato da Pechino inondando con il suo surplus produttivo un Vecchio continente sempre più de-industrializzato? E come altro chiamare le acquisizioni di quote sempre maggiori dei principali nodi infrastrutturali del bacino mediterraneo (il caso del Pireo è quello più noto, ma si potrebbero citare Valencia, Marsiglia, Vado Ligure…)? Se questa è economia, proprio la chiave economica (dal 2012 oltre 16 miliardi di dollari provenienti dalla Cina) si è fatta anche strumento di avvicinamento politico nella creazione del cosiddetto forum 17+1 che unisce a Pechino tutti i principali Paesi dell’area mitteleuropea, baltica e balcanica (dodici di questi sono membri dell’Ue), erodendo dall’interno i già fragili equilibri di un’Unione divisa tra nord e sud, tra “frugali” e “spreconi”. Se a questo si aggiunge la nota Belt and Road Initiative, non sembra eccessivo definire Pechino il ventottesimo membro del Consiglio europeo.

Su questo quadro di massima si è scaricato il “fulmine” Covid-19. Al di là della provenienza ufficiale del virus, nella pandemia la Cina ha mostrato il volto peggiore del suo approccio strategico. A colpi di bugie e propaganda, Pechino ha palesato probabilmente la sua vera natura nel condurre la politica estera.

Anche su questo fronte a Bruxelles e dintorni sembra essere suonata la sveglia. E’ iniziata, anche se ancora embrionalmente, una controffensiva. È vero che nel recente incontro tra l’Alto rappresentante Borrell e il ministro degli esteri Wang Yi quest’ultimo ha in maniera sprezzante affermato “Europa e Cina non sono rivali, dobbiamo solo rispettare i nostri sistemi diversi”. Giro di parole per invitare gli europei a farsi i fatti propri, in particolare su Hong Kong e Taiwan. Ma ben più importante è il lavoro sotto traccia, la vera e propria controffensiva giuridica attuata da Bruxelles per cercare, almeno in parte, di recuperare le molte posizioni perse nel confronto sino-europeo. I piani per una rete 5G autonoma, per una sovranità sanitaria ed energetica, ma anche il nuovo codice Ue sugli investimenti esteri che dall’autunno sanzionerà i rischi per salute e ordine pubblico. Dal 25 marzo sono inoltre uscite le linee guida per tutelare salute e vulnerabilità economica dell’Ue. E infine sono in arrivo stringenti controlli sui sussidi pubblici negli investimenti esteri di società capitalizzate dallo Stato (provvedimento tutto in funzione anti-cinese). Si profila all’orizzonte, seppur ancora in maniera solo abbozzata, quell’“Europa che protegge” e che promuove la nascita di grandi gruppi industriali europei, favorendo il rimpatrio delle cosiddette catene di valore. In definitiva quell’Unione assente in quest’avvio di XXI secolo.

Ma accanto alla “norma” serve come non mai la “politica”, ovvero la “diplomazia”. Occorre essere consapevoli del fatto che una seria politica di “terza forza” non ha alcun senso se è costantemente erosa dall’interno dalla stipula di negoziati bilaterali, in particolare tra Pechino e singoli Paesi membri dell’Ue o gruppi di essi. A Bruxelles, ma ancora di più nelle principali capitali europee (prima di tutto a Berlino e a Parigi), e soprattutto nei prossimi decisivi mesi, servirà una sapiente capacità nell’unire “interessi e valori” per fronteggiare, non in modo manicheo, ma in maniera salda, quella che di recente «Le Monde» ha definito la “muraglia cinese”.

Lo si è detto oramai allo sfinimento. Nella risposta al Covid-19, l’Ue si gioca il suo domani. Ma parte di questo futuro, se futuro sarà, è legato a doppio filo alla sfida strategica proveniente da Pechino.

 

 

Michele Marchi
marchi@per.it

Professore di Storia Contemporanea presso il Dipartimento di Beni Culturali dell'Università di Bologna. Si occupa di storia politica dell’Europa del XX secolo con particolare attenzione per quella francese e per il rapporto tra politica e religione in Francia ed in Italia. Per Rubbettino ha pubblicato "Alla ricerca del cattolicesimo politico. Politica e religione in Francia da Pétain a de Gaulle" (2012). Membro del comitato di redazione della "Rivista di Politica", della redazione della rivista "Ricerche di Storia Politica" e della rivista "Nuova Informazione Bibliografica".

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