
03 Dic Ma la sinistra italiana giustifica ancora il comunismo
di Marcello Flores
Le polemiche che sono state rivolte alla Risoluzione del Parlamento europeo del 19 settembre 2019 “sull’importanza della memoria europea per il futuro dell’Europa” sono state il risultato combinato e congiunto di due diverse ma convergenti dinamiche:
– il rifiuto di una parte della sinistra (quella nostalgica del PCI, per dirla in modo schematico, di cui l’espressione più limpida è stata la reazione di Macaluso) a prendere in considerazione cosa è stato il comunismo “storico”, che non si può certo identificare con i partiti comunisti all’opposizione ma va analizzato e discusso per quello che ha rappresentato dove è stato al potere per decenni;
– la pulsione della stampa italiana a creare polemiche artificiali e nominalistiche anche dove non ce ne sarebbe alcun motivo per surrogare alla propria organica carenza di analisi, di inchieste, di approfondimenti.
Il testo del Parlamento europeo
Il documento del Parlamento europeo, in modo certamente burocratico e repulsivo per la lettura di un cittadino medio, inizia con ben sedici “vista la…”, cioè sedici richiami a risoluzione e dichiarazioni precedenti che fin dal 2006 hanno espresso condanna per i crimini del comunismo e del totalitarismo, su cui, forse per ignoranza o insensibilità di fronte alle prese di posizione pubbliche delle istituzioni europee, nessuno aveva mai trovato nulla da ridire. E aggiunge poi, sempre con il solito burocratese, ben tredici “considerando che…”, i cui primi tre riguardano lo scoppio della seconda guerra mondiale e il di poco precedente patto von Ribbentrop-Molotov firmato dalla Germania nazista e dall’Urss staliniana e tutti gli altri parlano delle vittime dei regimi totalitari e della necessità di preservarne e onorarne la memoria.
Dei 22 punti successivi in cui si articola la vera e propria Risoluzione, il primo ricorda i valori comuni di tutti i membri dell’Unione (dignità della persona, libertà, democrazia, stato di diritto, rispetto dei diritti umani) e il secondo ricorda che la seconda guerra mondiale “è iniziata come conseguenza immediata del famigerato trattato di non aggressione nazi-sovietico del 23 agosto 1939” (prima si era già sottolineato che il Patto aveva “spianato la strada” alla guerra e che una conseguenza del medesimo era stato il fatto che “la Repubblica polacca fu invasa prima da Hitler e due settimane dopo da Stalin”). I successivi “ricordano” che i regimi totalitari (nazismo e comunismo) hanno “commesso omicidi di massa”, esprimono “rispetto per ciascuna delle vittime”, condannano la “diffusione di ideologie totalitarie”, “condanna il revisionismo storico e la glorificazione dei collaboratori nazisti in alcuni stati membri della UE” e “invitano” a commemorare le vittime, a contrastare ogni forma di negazione dell’Olocausto, a dare “sostegno effettivo ai programmi di memoria” finanziati da anni nel progetto “Europa per i cittadini” ecc, ecc.
Non c’è una sola parola, ma neppure un lontano riferimento che possa far pensare che questo documento intenda equiparare nazismo e comunismo, come hanno scritto nei titoli tutti i giornali italiani (ma solo quelli italiani!) e come hanno denunciato insigni politici ex comunisti, (ho già ricordato Macaluso), insigni storici (Collotti sul Manifesto) e associazioni che vivono della memoria (solo la loro) come ad esempio l’ANPI. Il problema, quindi, se si ha un minimo rispetto per la fonte (la Risoluzione) e la si affronta con i criteri che ogni studente di storia impara già dal primo anno di università, non è e non può essere quello della presunta e inesistente equiparazione tra nazismo e comunismo.
Quali sono, allora, i problemi che questa Risoluzione ha posto, soprattutto in Italia che è stato l’unico paese dove sono state così ampie e ripetute le critiche e le indignazioni?
Direi sostanzialmente tre: uno riguarda la stessa Risoluzione, ma gli altri due riguardano invece il modo con cui in Italia ancora non si vuole, a trent’anni dalla caduta del Muro di Berlino, fare i conti col comunismo storico preferendo consolarsi con la diversità e la bontà del comunismo italiano.
Il Patto Molotov-Ribbentrop
Punto primo: la Risoluzione, in effetti, dà un preciso giudizio su un evento storico preciso e questo, da un’istituzione pubblica, anche europea, andrebbe sempre evitato. Si tratta, però, di un giudizio in qualche modo cronologico ed evenemenziale, che pone lo scoppio della guerra come immediatamente successivo al Patto nazista-sovietico e sottolinea il nesso tra i due momenti. La guerra, come molti hanno voluto ricordare diventando improvvisamente acuti storici e docenti integerrimi, non ha come causa il patto von Ribbentrop-Molotov, anche se è difficile per chiunque abbia solo buon senso pensare che quel patto non abbia influito sulla decisione di Hitler e non abbia quindi, favorito e accelerato la guerra. Si poteva, in sostanza, rilevare che parlare di “conseguenza immediata” era forse troppo netto ed esagerato, ma non condannare come falso e antistorico quel giudizio.
Purtroppo molte delle vestali indignate da questo giudizio (giudizio storiografico certamente legittimo ma ormai privo, sulla base di tutta la documentazione esistente, della solidità scientifica che si dovrebbe pretendere) continuano a ritenere che la scelta sovietica fu giusta e oculata perché permise all’Urss di prepararsi per l’aggressione che avrebbe conosciuto da parte nazista quasi due anni dopo con l’Operazione Barbarossa (in realtà, come si sa, Stalin non approfittò affatto di “prepararsi” alla guerra e ritenne fino all’ultimo giorno false e fuorvianti le informazioni che le proprie spie gli mandavano sul prossimo attacco tedesco). Vorrei, in proposito, ricordare solo la reazione immediata alla notizia del Patto che ebbe Jules Humbert-Droz, dirigente dell’Internazionale comunista e presidente del partito comunista svizzero:
“La mia prima reazione verbale fu: «Merda! Non ci mancava che questa! Che fare? Naturalmente cercare di spiegarlo come volontà dell’Urss di restare fuori del conflitto e di mantenere il suo popolo in pace». È quello che facemmo. Io vissi comunque questo nuovo voltafaccia di Stalin come un tradimento di tutta la nostra politica di lotta contro il fascismo e per la pace”.
Humbert-Droz ovviamente non sapeva che l’accordo prevedeva la spartizione della Polonia, che l’Urss invaderà il 17 settembre, facendo prigionieri decine di migliaia di militari polacchi (molti di loro massacrati nelle fosse di Katyn nell’aprile del 1940), mentre Hitler era in procinto di entrare a Varsavia.
Un confronto storico tra i due totalitarismi
Secondo punto: in realtà quello che si è voluto rifiutare da parte di molti non è una inesistente “equiparazione”, ma la possibilità stessa di una “comparazione”, di un “confronto” storico tra questi due totalitarismi (chiamiamoli pure in un altro modo se non ci piace questo termine, che è ormai, però, è decisamente generico e non più connotato dalle polemiche storiografiche degli anni ’50-’70). Mi ero illuso, ventidue anni fa, quando organizzai a Siena un convegno internazionale su “Fascismo, nazismo e comunismo: totalitarismi a confronto”, che finalmente questa possibilità di comparazione si fosse aperta e accolta in Italia.
Sul piano degli studi qualche cosa si è fatta (anche se i nostri storici assai poco rispetto a quelli tedeschi, francesi, inglesi), ma quello che non si vuole accettare è che la “comparazione” diventi elemento di discussione pubblica, di public history, di comunicazione e trasmissione più ampia, di divulgazione, addirittura di insegnamento nelle scuole e nelle università.
Al fondo mi sembra sia ancora presente, in troppa parte della sinistra italiana – e, per quello che vale, le reazioni che sono apparse sui social media condannano forse ancora più radicalmente la Risoluzione – l’idea che il comunismo, anche se ha commesso dei crimini (che si condannano, ovviamente), ha una giustificazione storica, morale e politica, che il nazismo invece non ha e non potrà mai avere. Proprio per questo, quindi, più per motivi morali e politici che storici, nazismo e comunismo è bene non compararli: altrimenti ci dimentichiamo (l’hanno scritto in centinaia in questi giorni) dei venti milioni di morti di russi. Come se il ricordo, invece, dei milioni morti nel Gulag – per qualche buontempone una realtà identica a quella delle fabbriche durante la rivoluzione industriale – si dovesse un po’ ammorbidire o minimizzare per via dei venti milioni morti nella guerra. Dimenticando, oltretutto, che i venti milioni di morti in guerra sono morti “russi”, non di morti per il comunismo.
La costruzione di una memoria europea
Terzo punto: quando si parla di memoria “condivisa” o di memoria “comune”, scatta inevitabilmente – e giustamente soprattutto da parte degli storici – una reazione istintiva. Ogni memoria, infatti, per quanto possa avere in sé elementi aberranti di giudizio, è legittima, è vera, diventa parte delle memorie che compongono il ricordo del passato. Proprio per questo non possono essere condivise mentre dovrebbe esserlo almeno uno zoccolo duro della storia (il riconoscimento di fatti, eventi, realtà attorno a cui possono esistere interpretazioni e giudizi differenti) anche da parte di chi professa e mantiene memorie contrapposte.
Quando però si parla di “memoria europea” si sta parlando di un percorso, di un obiettivo, di progetto che possa servire a dare una maggiore identità comune a popoli che ne hanno finora avuta di diverse, nazionali quando non nazionalistiche, e quindi esclusive e contrapposte. Certo, la memoria comune europea dovrebbe passare, forse, prima dal tentativo di costruire una storia comune europea – nel senso dello zoccolo duro ricordato prima – ma è inevitabile che nei discorsi educativo-culturali che le istituzioni europee portano avanti, anche con merito e successo, ci possa essere un crinale ambiguo – come del resto avviene molto spesso – tra memoria e storia.
Discutere in modo proficuo e propositivo di quest’ultimo punto – l’unico vero punto serio che avrebbe meritato un approfondimento – non può comportare, o almeno non dovrebbe, accettare invece i pregiudizi, stereotipi e contraddizioni dei due punti precedenti.
Come si insegna e si divulga la storia
Del resto l’intervento pubblico – di storici, politici, cittadini impegnati – sul versante dell’insegnamento della storia non ha mai brillato per originalità, appiattendosi su richieste nominalistiche e burocratiche come quelle riguardanti la cancellazione e la reintroduzione dell’esame di storia alla maturità.
Mentre non ha mai voluto affrontare di petto la vera questione che sta alla base del distacco dalla storia e dell’ignoranza di storia che tutti riconoscono: la comprensione di come oggi si produce la trasmissione della storia e del sapere relativo al passato, di quali sono gli strumenti attraverso cui avviene la perdita di senso storico, di come il primo obiettivo dovrebbe essere un rinnovamento a 360° dell’insegnamento della storia, prima nelle università e poi nelle scuole, per preparare sia i futuri protagonisti della public history (archivisti, bibliotecari, documentaristi, divulgatori, ecc) che i futuri fruitori di quella narrazione extrascolastica che è oggi il centro del senso storico comune.
Nuova didattica e divulgazione sono i due pilastri per ridare il senso della storia a tutti: ma sono due cose che nel manifesto lanciato dalle pagine di Repubblica e che ha ottenuto qualche mese fa tante condivisioni mancano del tutto.
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