Ma l'amministrazione non funziona: il caso delle misure contro la crisi pandemica - Fondazione PER
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Ma l’amministrazione non funziona: il caso delle misure contro la crisi pandemica

Bruno Anastasia

 

Più o meno Stato. Se ne discute perché, sull’onda del coronavirus, più Stato sembra inevitabile, almeno per un po’, e per molti è anche auspicabile.

 

Un allargamento spettacolare del campo dell’azione pubblica

Certo, la realtà non lascia dubbi. I dipendenti pubblici, in tempi normali, sono circa il 15% del totale degli occupati. Ma tra marzo e maggio, contando cassintegrati e bonus 600 euro per quasi tutti i lavoratori indipendenti, lo Stato è intervenuto – più o meno puntualmente – per sostenere, integralmente o parzialmente, i redditi di oltre il 60% degli occupati.

Considerando anche i pensionati, che ricevono mensilmente dal braccio dello Stato (Inps) le loro più o meno eque spettanze, possiamo stimare che circa tre quarti dei 40 milioni di cittadini con redditi regolari, nei mesi recenti hanno beneficiato di flussi di denaro provenienti direttamente, per un motivo o per l’altro, dallo Stato. In definitiva un allargamento spettacolare del campo dell’azione pubblica, anche se a volte percepito come il minimo dovuto.

E all’orizzonte si profilano – o quanto meno se ne discute l’opportunità – ulteriori interventi diretti, negli ambiti della governance delle imprese (con tante gradazioni) come pure nella cornice di una nuova – ma sempre ardua da precisare in concreto – strategia di “politica industriale”.

 

Come può migliorare l’azione della macchina pubblica?

I nodi problematici sottostanti al ruolo crescente dell’intervento pubblico nell’economia sono diversi: investono le forme dell’intervento, le conseguenze sulla finanza pubblica e sul destino del nostro debito statale, alla fine viene in causa la grande tematica della riforma dello Stato, per quanto il punto risulti accantonato dopo il fin troppo generoso tentativo operato dal Pd a guida Renzi nel 2016, bocciato dal popolo e dalla coalizione di tutte le altre forze politiche.

Questioni enormi, teoriche ma anche – se non soprattutto – di pratica politica: quale coalizione di partiti, quali forze civiche, quali interessi sociali possono ragionevolmente farsene carico? e con quali classi dirigenti?

Restando su un piano più prosaico, si può condividere una semplice esigenza: prima ancora di dibattere (accademicamente) se lo Stato debba intervenire di più o di meno, sarebbe bene affrontare la questione se lo Stato debba intervenire “meglio”. In effetti tutta la diffusa insoddisfazione per la burocrazia e per gli apparati si basa su aspettative deluse circa la qualità della loro azione.

Ma come può migliorare l’azione della macchina pubblica? Non basta di sicuro la buona volontà. E sono inutili le generiche dichiarazioni di intenti: tanto nessuno si proclama a favore delle lungaggini burocratiche o è contrario alla semplificazione. Tutto ciò che è largamente condiviso non serve ripeterlo.

Serve quindi dell’altro. Senza alcuna pretesa di esaustività provo a proporre alcuni spunti di riflessione a partire anche, ma non solo, da quanto accaduto in questi mesi con i molteplici interventi pubblici per contrastare l’impatto dell’emergenza Covid sull’economia, in particolare sui redditi delle famiglie.

 

Sistemi informativi centralizzati e procedure uniformi

1- Gran parte dell’azione pubblica in campo sociale ed economico si svolge appoggiandosi essenzialmente su sistemi informativi centralizzati, che meglio garantiscono (o possono garantire) regole e procedure uniformi e standardizzate. Conseguenze:

a. bisogna tenerne conto

b. è meglio lasciar perdere il livello locale

c. è importantissima la manutenzione degli archivi informativi e dell’insieme di regole (normative e sistemiche) che li governano e che ne permettono l’interrogazione e quindi l’utilizzo

1a. Lo sanno tutti ormai che il rapporto tra cittadino e amministrazione pubblica non è più, come un tempo, un rapporto tra cittadini (utenti) e impiegati (burocrati). Per quanto l’impiegato che trovo nella sede dell’Agenzia delle Entrate o della Questura o dell’Inps sia pieno di buona volontà, il servizio che mi potrà dare dipende essenzialmente dalla qualità dei sistemi e degli archivi informativi di cui egli (la sua struttura) dispone: se il database e/o la procedura di interrogazione sono pessimi, sarà inevitabilmente pessimo il servizio. A nulla varranno la gentilezza dell’impiegato o la solerzia del burocrate che comunque saranno ingiustamente ritenuti responsabili di ciò che non funziona.

Come abbiamo visto anche in questi mesi, per l’attivazione concreta di molte previsioni legislative – soprattutto quando rivolte a grandi masse di utenti – sono decisivi la predisposizione di una piattaforma, la definizione di un algoritmo, il varo di un nuovo servizio digitale. Di tutto ciò il legislatore ancora non ha precisa consapevolezza.

Ancora si finge che una legge entri in vigore con la pubblicazione in Gazzetta Ufficiale mentre in realtà nulla può accadere finché non è pronta la procedura digitale da utilizzare, che quasi mai è una banalità risolvibile in poche ore. Ignorare tutto questo induce in errore: come abbiamo visto con l’annuncio che i soldi della Cassa integrazione sarebbero potuti arrivare entro il 15 aprile. Totalmente irrealistico, come ogni conoscitore dei meccanismi sottostanti ben sapeva. Ed è fuorviante ritenere che si tratti solo di un deficit di comunicazione (“è stato un errore di comunicazione”, si usa dire): no, è stato un errore di conoscenza e di rappresentazione di come funziona l’Amministrazione, cioè la realtà. Stesse considerazioni si possono fare per le indennità 600 euro.

1b. Si sa che in Italia i conti tra centralismo e localismo (o federalismo o territorio che dir si voglia) sono tuttora aperti. Una soluzione istituzionale strutturale e condivisa della ripartizione di compiti tra centro e periferia non è all’ordine del giorno. Il principio di sussidiarietà è evocato ma non praticato. Si va a spanne: i vincoli alle riforme sono più forti delle esigenze di cambiamento e non c’è oggi un attore in grado di tagliare il nodo di Gordio senza farsi troppo male.

Eppure la decisione sul livello a cui è più utile si dispieghi l’azione pubblica è una decisione importantissima. E qualcosa nell’ultimo ventennio dovremmo pur aver imparato, almeno sulle precondizioni di una efficace ripartizione dei compiti tra i diversi livelli di governo: per esempio che non bisogna esagerare con le “competenze concorrenti” e che il richiamo alla “leale collaborazione tra istituzioni” è radicalmente insufficiente in presenza di una disordinata sovrapposizione di iniziative, favorita dai confini evanescenti tra il raggio d’azione delle diverse istituzioni. Il coinvolgimento di più istituzioni è in genere segnale di debolezza del sistema e di tensione all’annacquamento di specifiche e riconoscibili responsabilità.

I recenti provvedimenti per contrastare le conseguenze del Covid offrono materia di riflessione al riguardo. E’ stato istruttivo quanto successo in merito alla Cassa integrazione in deroga: il passaggio regionale, previsto dal Decreto di marzo, si è immediatamente rivelato del tutto inutile, com’era ben evidente a chi conosceva un po’ l’esperienza fatta tra il 2009 e il 2015, ed è servito solo a generare, intorno ai flussi di sostegno al reddito dei cassintegrati, un’aura di malfunzionamento e di ritardi e una conseguente caduta di reputazione delle prestazioni della macchina pubblica ben superiore alla stessa realtà dei fatti. E’ inutile fare in due – Stato e Regioni – ciò che può benissimo essere fatto da un’unica istituzione: nel caso specifico, riguardante le politiche passive del lavoro, dallo Stato perché è solo a livello centrale che si dispone delle informazioni (e quindi degli archivi) e delle risorse necessarie a erogare le indennità previste.

1c. Di fronte all’emergenza, per dispiegare gli interventi pubblici di sostegno a famiglie e imprese, si è dovuto far leva sulle risorse informative esistenti: classificazioni, archivi e procedure. Inevitabile la path dependance dal pre-esistente, quanto a chiarezza, esaustività, aggiornamento, adeguatezza istituzionale e capacità di gestione.

Per quanto riguarda il sostegno ai singoli e alle famiglie molta leva è stata fatta sulla classificazione della popolazione (lavoratori ma non solo) a fini previdenziali e assistenziali: non l’unica possibile ma senz’altro la più disponibile e aggiornata. Questa scelta spiega anche alcune distorsioni: i bonus sono stati segmentati sulla base del puzzle formato dai diversi fondi previdenziali all’interno di Inps o all’esterno (le casse professionali). Costituendo la “griglia-base” adottata, il perimetro dei fondi ha determinato sia inclusioni/esclusioni sia le diversità di trattamento.

All’interno della galassia del lavoro indipendente sono stati esclusi i lavoratori autonomi occasionali con compensi complessivi inferiori a 5.000 euro annui (noti al fisco ma non all’Inps perché senza obblighi previdenziali) e molti degli iscritti in via esclusiva alla gestione separata tra cui i più numerosi, ma non gli unici, sono gli amministratori (perché appartenenti, pur pagando la medesima aliquota previdenziale dei collaboratori, a “sottogruppi” degli iscritti alla “gestione separata” che la norma ha dimenticato).

Tra i soggetti trattati non tutti sono stati trattati egualmente: per l’erogazione del bonus il condizionamento al reddito è stato immediatamente previsto per i professionisti con Ordine ma non per i professionisti senza Ordine. Infine quando si è trattato di intervenire su categorie intuitivamente chiare nel generico discorso di politici e opinione pubblica (lavoratori stagionali, partite Iva, esodati) ma non rispondenti a perimetri altrettanto precisi e ben definiti nelle norme e negli archivi pubblici, i disguidi e i problemi sono stati inevitabili e si riflettono perfettamente negli alti volumi di domande respinte.

Emblematico il caso delle attività stagionali: originariamente definite dal Dpr n. 1525/1963, nel tempo aggiornate dai contratti collettivi nazionali, se ne attendeva una più precisa definizione con un nuovo decreto, come previsto dal Jobs Act. Ma non se ne è fatto nulla. Non ci si può meravigliare se al momento di utilizzare la definizione che serviva non tutto è filato liscio.

L’opinione pubblica spesso immagina che l’Amministrazione sappia già tutto, abbia buone e precise informazioni, sia insomma una specie di Grande Fratello. Gli stessi politici e talvolta anche i massimi dirigenti immaginano che basti premere il bottone (di un computer) perché vengano immediatamente e precisamente identificati i target più diversi (le imprese che stanno per chiudere o i tirocinanti che saranno assunti o le donne che a causa di una maternità hanno perso o perderanno il lavoro o appunto gli stagionali… della prossima stagione etc.).

Tutti coloro che coltivano queste fantasie confondono il potenziale con il reale: ignorano che non basta che le informazioni siano, in un qualsiasi modo, raccolte o raccoglibili, perché diventino utilizzabili con qualsiasi finalità, a qualsiasi livello di aggregazione. Se tutto il processo produttivo – dalla definizione dell’informazione da raccogliere fin alle elaborazioni finali – non è perfettamente a regime, le lacune delle varie fasi, gli errori e i bachi che si insinuano per mille motivi, condizionano la qualità dei risultati finali (a volte la stessa fattibilità della policy). Non è quindi per cattiva volontà o per pigrizia che certe prestazioni della Pubblica amministrazione arrivano in ritardo, quanto piuttosto perché ci sono forti carenze in snodi cruciali dei processi di canalizzazione e trattamento delle informazioni. Che necessitano dunque di maggiori cure, impossibili da garantire nei momenti di emergenza.

Ma occorre anche aggiungere che non tutto dipende dall’Amministrazione pubblica: contano enormemente anche le modalità di lavoro dei suoi interlocutori privati, vale a dire i soggetti obbligati a fornire le tante comunicazioni richieste. Se queste sono presentate in ritardo o sono carenti o sono sbagliate (come avvenuto per molti Iban di dipendenti, che dovevano essere comunicati per consentire all’Inps il pagamento della Cig così come delle indennità 600 euro) allora tutto il processo si inceppa, e non certo per causa dell’Amministrazione.

Tutto ciò riflette, indirettamente, i ritardi nella modernizzazione del Paese, vale a dire nell’informatizzazione e nell’accuratezza dei processi gestionali delle imprese, nell’abitudine collettiva alla precisione, nella dimestichezza diffusa con gli strumenti on line etc. Se vogliamo interventi equi, veloci, trasparenti e automatici, la manutenzione delle basi dati e dei datawarehouse è l’attività fondamentale. E per favorirla servono norme snelle, lineari, traducibili in codice informatico, senza che gli informatici siano costretti a improvvisarsi anche interpreti delle norme stesse.

 

Quando serve la discrezionalità

2- Non tutta l’azione pubblica a favore di famiglie e imprese può svolgersi presupponendo, da parte dell’amministrazione pubblica, la perfetta conoscenza e l’adeguata classificazione di tutte le varie situazioni esistenti. A volte può servire o essere inevitabile una certa discrezionalità. Conseguenze:

a. in questi casi è meglio lasciar perdere il livello centrale;

b. la discrezionalità è accettabile in un contesto di assunzione di responsabilità e ciò è possibile se vi è un minimo di circolazione di fiducia tra cittadini e istituzioni

2a. Tutti invocano interventi semplici e precisi, perfettamente aderenti ad ogni singolo caso, ad ogni situazione. Tutti vorremmo essere trattati “non come numeri” ma che si tenesse sempre conto della nostra “assoluta singolarità”. In realtà la semplicità è nemica della precisione.

L’aderenza di una determinata situazione (di individuo, di una famiglia o di un’impresa) ai requisiti richiesti dall’Amministrazione pubblica per attivare un dato intervento di sostegno passa sempre attraverso la classificazione di quella data situazione. Classificazione che inevitabilmente si appoggia su elementi predefiniti, necessariamente standardizzati. L’intervento selettivo caso per caso e il correlato riconoscimento di un’infinità di possibili combinazioni non sono possibili quando la macchina pubblica è chiamata ad agire estesamente, su numeri rilevanti di destinatari, tempestivamente e assicurando la parità di trattamento (almeno sulla base dei requisiti ritenuti necessari).

C’è un’alternativa? Sì: è la delega al livello territoriale con il riconoscimento ad esso di un margine di discrezionalità, anche in deroga ai rigidi parametri degli interventi centralizzati. Solo se possibile l’esercizio della discrezionalità si può adeguare ogni intervento sociale alla casistica più disparata.

Una riflessione a tale riguardo è suggerita dal recente varo del “reddito di emergenza”, sempre nel quadro degli interventi post coronavirus. Il reddito di emergenza è stato attivato perché si riteneva che le maglie e le procedure del “reddito di cittadinanza” non fossero in grado di raccogliere tutte le situazioni difficili, vulnerabili ma non incasellabili nelle maglie che esso prevede. Ora che ciò possa accadere è già un problema: se il reddito di cittadinanza è lo strumento universale contro la povertà, come mai nel momento in cui si teme che essa diventi un rischio concreto per una parte significativa della popolazione occorre inventare un altro strumento? Qualora si risponda positivamente a questo interrogativo – accettando quindi che ci siano delle situazioni specifiche che sfuggono all’intervento del Reddito di cittadinanza – perché insistere con il varo di un nuovo strumento centralistico, anch’esso standardizzato, operativo attraverso le consuete procedure informatiche e quindi impersonali?

Gli algoritmi che funzionano “a memoria” sulla base delle istruzioni ricevute assicurano standard e (potenziale) trasparenza ma non possono garantire aderenza a situazioni nemmeno configurabili a priori. Volendo aggirare il reddito di cittadinanza era logico e opportuno rafforzare il ruolo dei comuni, continuando sulla strada già tracciata con i 400 milioni del “pacco alimentare”. Del resto i soldi stanziati per il reddito di emergenza (quasi un miliardo) non configurano un rilevante salto di scala, tale da richiedere un nuovo programma e nuovi strumenti operativi.

2b. Non piace nemmeno il sentore di discrezionalità? si preferiscono gli automatismi e gli standard, immaginando che in tal modo si assicuri la maggior equità di trattamento? vi è radicale diffidenza per ogni intermediazione umana, ritenuta sempre passibile di corruzione? Beh, anche ad ampi settori di dipendenti pubblici la discrezionalità – che comporta assunzione di responsabilità – non piace affatto, mentre risulta rassicurante nascondersi dietro standard, procedure, accertamenti, adempimenti e automatismi, che configurano il crescente apparato di “burocrazia difensiva”, volto soprattutto a proteggere se stesso e a realizzare solo ciò che le norme hanno previsto, se decifrabili, mentre chi deve essere protetto è il cittadino debole non il burocrate timoroso né, in cima alla catena, il legislatore che produce leggi confuse. Se ne esce solo rischiando qualcosa, lavorando – non saprei bene come – per salvaguardare (o costruire) un ambiente sociale in cui circoli un po’ più di fiducia e meno vittimismo indotto dalle rappresentazioni polemiche “a prescindere”, funzionali solo al clima perennemente elettorale.

 

Innovazioni parsimoniose

3- Le riforme e le innovazioni normative/organizzative devono essere parsimoniose: meglio astenersi se gli effetti collaterali sono più negativi o più costosi del “bene” che si vuol raggiungere.

Sono convinto che per migliorare l’azione della macchina pubblica occorre innanzitutto capire sul serio (e non è facile) come essa funziona attualmente, entro quali limiti e con quali ragioni. Limitarsi al disegno di come dovrebbe funzionare è, almeno apparentemente, più facile ma è un esercizio che, da solo, è innocuo ed inutile. E’ decisivo pertanto conoscere le regole, le prassi, i vincoli e soprattutto le procedure, saperne la storia, comprendere le ragioni e gli obiettivi cui originalmente rispondevano. Mai fidarsi di chi propone soluzioni per problemi che non ha capito.

Ciò implica esaminare nel dettaglio le norme e i processi produttivi dell’apparato pubblico e intervenire parsimoniosamente. Perché parsimoniosamente? Perché bisogna capire gli effetti e le retroazioni di ogni innovazione normativa, organizzativa o procedurale, che non è destinata a cadere in vacuum ma interagisce con tutto il sistema. Non sono utili le innovazioni che per migliorare un aspetto ne peggiorano altri o che hanno costi-opportunità del tutto squilibrati (oneri eccessivi e vantaggi irrisori).

Un piccolissimo esempio, giusto solo per dare un’idea, a proposito di norme: nel 2011 è stato varato il testo unico sull’apprendistato. Risolveva una lunga querelle giuridica e definiva l’apprendistato come un contratto a tempo indeterminato. Al datore di lavoro rimaneva comunque la possibilità di recesso, alla fine del periodo formativo, senza nessun costo e nessun bisogno di motivazione. Esattamente come alla fine di un qualsiasi contratto a tempo determinato. Ma mentre in precedenza il datore di lavoro aveva l’obbligo di comunicare la trasformazione (da apprendistato a tempo indeterminato), a partire da ottobre 2011 per i nuovi contratti si dava per scontata la loro prosecuzione (alla fine del periodo formativo), salvo che il datore di lavoro non comunicasse la cessazione per recesso. Sostanzialmente non cambiava assolutamente nulla, né per il lavoratore né per il datore di lavoro ma l’impatto sui sistemi informativi che raccolgono le comunicazioni obbligatorie delle imprese sui rapporti di lavoro è stato enorme, con costi consistenti di adeguamento dei sistemi e – come in ogni transizione – perdita assai rilevante di informazioni. Ci sono voluti anni per ritornare ad una qualità accettabile delle informazioni contenute negli archivi sui rapporti di apprendistato.

Un ragionamento analogo vale per altri importanti strumenti dell’azione pubblica, come le classificazioni o ri-classificazioni della condizione della popolazione o delle imprese. Si tratta di strumenti decisivi che devono essere tendenzialmente persistenti: le modifiche, certamente indispensabili nel medio-lungo periodo, non possono essere introdotte a cuor leggero, perché anche interventi marginali possono avere un impatto destabilizzante. In particolare è sempre il passato che ritorna e pesa: ogni manomissione di classificazioni modifica l’impatto dell’insieme di incentivi/disincentivi, modifica la posizione e le convenienze dei destinatari, comporta un disallineamento e quindi un confronto tra vecchio e nuovo assetto e inevitabili complicazioni (come l’introduzione di “clausole di salvaguardia” finalizzate a salvare la capra della riforma e i cavoli delle abitudini precedenti: è quanto avvenuto, ad esempio, nel 2005 con la riforma fiscale Tremonti che spostava nel campo delle deduzioni molte agevolazioni precedentemente riconosciute tramite detrazioni).

Ciò non significa che i sistemi di classificazione in essere siano i migliori: vuol dire aver consapevolezza della rilevanza e dell’impatto – che per giustificarsi dev’essere sostanziale, non marginale o ininfluente – di eventuali modifiche. Oggi ad esempio – la crisi del coronavirus l’ha fatto toccare con mano – è riconosciuto il fatto che le attività economiche sono organizzate essenzialmente per filiere mentre le classificazioni ufficiali si basano tuttora sui settori/prodotti.

L’inapplicabilità e le distorsioni conseguenti all’utilizzo della classificazione settoriale sono chiaramente emerse in occasione della scelta dei criteri di esenzione dagli obblighi di lockdown per le attività essenziali. L’inquadramento in un determinato settore (industriale o di servizi) configura una lunga catena alternativa di costi/opportunità (aliquote previdenziali, accesso agli ammortizzatori sociali, controlli fiscali, costi assicurativi etc.): proposte di modifica, per quanto giustificate, dovrebbero valutarne la ricaduta sull’intero corpus regolamentare.

Più in generale serve molta cautela nel trasporre classificazioni finalizzate alla miglior conoscenza/descrizione della realtà in classificazioni valide a fini politico-amministrativi. A fini conoscitivi studiosi e ricercatori possono, senza controindicazioni, proporre e testare nuove classificazioni (in genere riclassificazioni) seguendo solo la razionalità interna dei loro progetti di analisi: se consentono una miglior conoscenza del reale le nuove classificazioni sono benvenute e magari nel tempo si riveleranno di successo e costruiranno nuovi standard.

Ma della loro meccanica e veloce trasposizione in ambito amministrativo occorre diffidare: in campo socio-lavorativo l’introduzione, a fine anni ’90 ad opera degli inglesi, della categoria dei Neet (Not in Education, Employment or Training) per individuare un nuovo aggregato formato in parte da disoccupati e in parte da inoccupati, è stata valida a fini conoscitivi ma ha comportato solo inutili complicazioni quando è stata adottata come criterio amministrativo su cui basare il Programma “Garanzia Giovani”. Come se non bastasse la categoria di “disoccupato” a individuare un target più che sufficiente di soggetti cui erogare le politiche attive del lavoro! Di fatto se il programma “Garanzia Giovani” fosse stato rivolto ai disoccupati anziché ai Neet non sarebbe cambiato nulla di sostanziale mentre molti passaggi sarebbero stati semplificati e qualche inutile ipocrisia evitata.

 

No alla frammentazione degli interventi

4- Anche astenersi dal moltiplicare e frammentare gli interventi è una buona politica. Difficilissima.

All’azione pubblica fa spesso difetto la capacità di auto-contenersi. Sia per le tante pressioni corporative sia per le continue esigenze elettorali, l’impulso a intervenire ovunque e di continuo è irrefrenabile: solo le ristrettezze di finanza pubblica formano un argine, nemmeno troppo solido.

Stupisce però l’assenza di consapevolezza circa l’insoddisfazione diffusa generata dai tanti micro-interventi che, per esaurimento delle risorse, soddisfano solo una quota parziale dei possibili beneficiari: accade per esempio quando si ricorre ai click day per raccogliere domande e, sulla base dell’ordine cronologico della loro presentazione, si forma l’elenco dei beneficiari effettivi, vale a dire la frazione dei potenziali, compatibile con i vincoli di spesa predeterminati.

Si danno, con queste scelte, messaggi non positivi:

a. l’amministrazione pubblica sembra prigioniera del “vorrei ma non posso”;

b. l’accesso alle risorse in gioco è come la vincita di una lotteria (il click day) dove occorre soprattutto fortuna;

c. l’azione dell’Amministrazione altera la concorrenza perché fornisce risorse ad alcuni e non ad altri solo sulla base di cavilli (i secondi di distanza nella cronologia della presentazione della domanda).

Astenersi dall’eccessiva parcellizzazione dei programmi di intervento, evitare politiche condizionate da risorse scarse e predefinite (e motivate da richieste corporative), rafforzare e se del caso allargare gli interventi basilari, gioverebbe alla stessa reputazione delle policies.

 

Disegnare un modulo

5- Disegnare un modulo, cui poi milioni di cittadini possono essere nelle condizioni di dover riempire, è faccenda tremendamente seria. E sottovalutata

Tutti abbiamo continuamente a che fare con moduli da riempire, talvolta ancora su cartaceo, altre volte – sempre più spesso per fortuna – on line. Chi ha disegnato i moduli? che competenze aveva? Con che rigore sono state valutate le informazioni da richiedere, le classificazioni di appoggio da fornire, la sequenza da proporre, l’uso da farne?

Moduli mal disegnati o messi giù frettolosamente poi a volte durano nei secoli dei secoli e i loro difetti, di chiarezza e di completezza, irritano inutilmente l’utente, oscurano la comprensione del reale scambio tra cittadino e Amministrazione pubblica, si riverberano sulla qualità degli archivi informativi.

Disegnare un modulo – e sorvegliarlo nel tempo, per testarne di continuo l’adeguatezza – è attività di rilevanza strategica, che dovrebbe essere affidata esclusivamente a team di “scienziati delle procedure”, che tengano insieme – con pari grado di dignità – competenze informatiche, normative e organizzative. La qualità dei moduli contribuisce in misura significativa a migliorare o peggiorare la qualità del rapporto Stato-cittadino.

Posso fare, tra i tanti, un esempio piccolissimo, infimo: qualche mese fa ho dovuto effettuare un versamento all’Inps per una ricongiunzione onerosa ma mi è occorso un bel po’ di tempo prima di capire che non dovevo incaponirmi nel cercar di utilizzare, nel modello F24, la sezione Inps – come ingenuamente davo per scontato, controllando e ricontrollando inutilmente, senza mai trovare errori, codice sede, codice contributo, codice Inps. Il versamento è stato possibile solo quando, finalmente, ho intuito che dovevo cambiare sezione utilizzando, per mandare i soldi all’Inps, non la sezione Inps ma la sezione “altri Enti Previdenziali e Assicurativi” (indicazione scritta, a onor del vero, in caratteri microscopici, nell’atto che Inps mi aveva inviato). In poche parole: il modello F24 non aveva – e tuttora non ha – digerito la costruzione con la riforma Monti-Fornero (2011) del “SuperInps” e tiene ancora in vita l’Inpdap, scomparso da quasi un decennio.

 

C’è bisogno di fiducia

Per concludere: quanto esposto sono spunti, suggestioni a proposito di una tematica irriducibile a banalizzazioni (tipo “azzerare la burocrazia”), perché far andare d’accordo semplicità e precisione non è scontato.

Tra queste due esigenze occorre cercare e accettare un continuo compromesso:

– l’eccesso di semplificazione non riconosce la complessità dei bisogni, delle vite, delle organizzazioni;

– l’eccesso di precisione affastella tendenzialmente all’infinito la parcellizzazione degli schemi di riconoscimento e dei programmi di intervento.

Questo compromesso è continuamente osteggiato se non circola un po’ di fiducia nel rapporto tra Stato e cittadino, fiducia basata su una contabilità del reciproco dare-avere che sia di lungo periodo e includa tutte le esternalità e i benefici generati, non solo a livello individuale ma comunitario.

Molto si può imparare dalle vicende recenti, se non ci si limita a magnificare le dimensioni eccezionali assunte dall’intervento dello Stato ma si coglie l’occasione per far sì che la sua azione sia “migliore”: più efficace, più tempestiva, più trasparente. Per questo occorre imparare dagli errori, dalle lacune, dalle deficienze dell’esistente.

E per imparare non bisogna nascondere né a se stessi né agli altri la reale consistenza delle criticità. L’ossessione di autodefinirsi “bravi”, “trasparenti”, “in regola” e di proteggersi dalle critiche, giuste o sbagliate che siano, è il maggior ostacolo ad ogni apprendimento.

Bruno Anastasia
anastasia@per.it

Ha diretto fino al 2019 l’Osservatorio sul mercato del lavoro regionale di Veneto Lavoro. Dal 2000 al 2006 ha fatto parte del Gruppo nazionale di monitoraggio delle politiche del lavoro (Ministero del lavoro e delle politiche sociali). Dal 2007 al 2009 ha collaborato con la Commissione di Indagine sul lavoro di iniziativa interistituzionale Cnel-Camera dei Deputati-Senato (Commissione Carniti). Dal 2015 ha collaborato con la Direzione Studi e Ricerche e con il Coordinamento Statistico-Attuariale dell’Inps. Dal 2016 fa parte del Gruppo di lavoro tecnico previsto dall’Accordo fra Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, Istat, Inps, Inail e Anpal. Dal 1994 al 2001 presidente del Coses di Venezia e dal 2001 al 2006 presidente dell’Ires Veneto. Dal 1999 al 2006 ha insegnato Economia del lavoro all’Università di Trieste, Corso di laurea in Scienze della Formazione.

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