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Merito: una cattiva ideologia per una buona politica

di Andrea Graziosi

Una versione leggermente ridotta di questo testo è apparsa su “Repubblica” del 17 novembre 2022

Il merito è un pessimo modo di legittimare una politica utile. La sua è una storia antica, rinnovata a fine ’700 dalla necessità, avvertita dall’illuminismo, di bilanciare un’uguaglianza di cui di cui si riconosceva l’importanza come principio—ma anche l’impossibilità e l’ingiustizia di fatto perché non tutti sono uguali—selezionando le élite con un criterio diverso dal privilegio.

Questa posizione, non rinnegata dal socialismo e riconosciuta dalla nostra Costituzione, è stata poi arricchita a sinistra con la nozione di pari opportunità, cioè con l’idea di eliminare i privilegi sociali, di genere, “etnia” o colore, ecc. per aprire a tutti una strada in cui i successi sarebbero stati dovuti, appunto, solo al merito. Il contratto dei Cinque Stelle con la Lega e le scelte del governo Meloni dimostrano che l’idea è stata accettata anche dalle narrazioni di destra e populiste. Essa deve la sua forza a due fattori: la riduzione dei privilegi di nascita appare ed è giusta, e l’apertura al merito permette di spezzare ingiustizie e favoritismi sostituendoli con competenza e integrità, favorendo il bene comune.

Ma sposare il discorso del merito e delle pari opportunità significa accettare l’idea che il mondo sia dotato di un meccanismo che – se depurato dai privilegi – lo renderebbe più giusto, producendo una variante, certo più difendibile, della narrazione per cui l’unico mondo giusto possibile è quello in cui ognuno ha “quel che si merita”. A chi non riesce, per esempio, a studiare, appare però un ragionamento ipocrita, teso a giustificare l’affermazione e la supremazia di chi la natura, la genetica, e il caso ha voluto più forte.

L’idea che basterebbe potenziare quel meccanismo per vivere in un mondo migliore, è inoltre illusoria e sbagliata.

Illusoria perché trae conclusioni false da un ragionamento corretto. Una società aperta agli individui e alle loro capacità è certo più efficiente e più vivibile di una società chiusa e di casta. Ed essa produce maggiore ricchezza, che può essere usata per migliorare le condizioni di tutti. Premiare il “merito”, cioè i naturalmente più dotati, conviene dunque in generale. Farlo vuol dire però anche far emergere, con ancor più nettezza, diseguaglianze prima relativamente celate dai privilegi, cambiando ma non attenuando la stratificazione degli esseri umani e le tensioni tra di essi.

Sbagliata perché sottovaluta la realtà ineliminabile e in generale positiva della diversità. Una società umanamente sopportabile può essere fondata sul principio dell’uguaglianza. Ma se gli esseri umani hanno tutti uguale valore, essi non sono tutti uguali.

Si tratta di una verità che merito e pari opportunità non possono cancellare. Se non li si inserisce in una narrazione più alta e comprensiva, essi hanno anzi effetti sgradevoli come capì Michael Young, l’inventore del concetto di meritocrazia, quando provò a immaginare che società avrebbe prodotto la sostituzione dei privilegi di classe col merito. Il risultato era un mondo insopportabile e generatore di fortissimi risentimenti perché stratificato ancor più rigidamente del precedente, con élite rese arroganti dalla coscienza di meritare il posto che occupavano e strati inferiori che sentivano di essere esclusi da ogni possibilità di ascesa perché anch’essi occupavano la posizione che meritavano. In questo mondo, accanto all’esaltazione di chi riesce a farcela, meglio ancora se superando le barriere del privilegio, vi sarebbe posto solo per politiche di aiuto ridotte, in mancanza di un discorso diverso, a irritanti elargizioni. Agli occhi di chi non ce la fa, merito e pari opportunità si trasformano inoltre facilmente in un discorso ipocrita e egoistico che avvantaggia privilegiati il cui successo viene comunque attribuito ai loro contatti o alla loro fortuna, approfondendo la faglia tra élite e strati emarginati.

Soprattutto, è lo stesso termine ad essere sbagliato. Non si tratta infatti di meriti, ma di talenti e capacità diversamente distribuiti nella popolazione, talenti e capacità che consistono non solo in una diversa intelligenza, ma anche in una diversa energia e in una diversa possibilità di affrontare la vita. Sono doti che con la tenacia si possono affinare, ma che traggono origine non da meriti degli individui ma in quelli che Papa Francesco ha chiamato i diversi doni con cui veniamo al mondo e che poi il mondo reprime o esalta. Non è inoltre vero che, se messi in condizione di correre, tutti corrono, e non è vero che ci sono posizioni soddisfacenti per tutti quelli che corrono.

La scelta delle élite in base a talenti e capacità va quindi assolutamente difesa, ma non in nome della meritocrazia. Non si deve spingere chi ne ha di più, e di più preziosi, a credere di “meritare” ciò che otterrà, ma piuttosto ricordargli che quelle doti sono privilegi. Esse garantiranno una vita migliore, e chi le ha avute in sorte ha quindi un debito verso gli altri.

La scuola e l’università hanno quindi compiti multipli. Tra essi figurano quello di dare a tutti la migliore istruzione possibile, ma anche quello di assicurare a chi ha talento e capacità l’opportunità di coltivarlo con percorsi sempre più rigorosi e impegnativi. Lo devono fare abbandonando la pretesa di una uguaglianza impossibile e l’esaltazione di chi è più capace, ma non per suo merito.

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Andrea Graziosi
graziosi@perfondazione.eu

Laureato con lode in economia all’Università di Napoli Federico II, ha condotto ricerche di storia americana e del lavoro a Pittsburgh e Yale con David Montgomery, e di storia sovietica con Lisa Foa in Italia e Moshe Lewin alla University of Pennsylvania. Ricercatore di storia economica dal 1983 e professore di storia dell’Europa orientale all’European University Institute nel 1997-1998, è ordinario di storia contemporanea a Napoli dal 2000. E’ stato presidente della Società Italiana per lo Studio della Storia Contemporanea dal 2007 al 2011. Ha scritto una Storia dell'Unione Sovietica in due volumi per il Mulino (2007-2008).

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