
28 Gen Mezzogiorno, non è colpa del Nord
di Francesco Gastaldi
Le politiche per il Mezzogiorno che si sono sviluppate nel nostro Paese dal dopoguerra ad oggi hanno contribuito ad avvicinare il Sud al resto d’Italia, hanno contribuito alla diffusione del benessere e di livelli di vita civile simili a quelli del resto d’Italia. Nonostante alcuni periodi di trasformazioni assai rilevanti il Mezzogiorno, però, costituisce ancora oggi uno dei principali problemi politici e socio-economici.
La forma di intervento pubblico più importante e duratura è stata, probabilmente, quella delle politiche di redistribuzione e sostegno del reddito, grazie a tali politiche di intervento il tenore di vita e il livello dei consumi delle popolazioni meridionali è notevolmente cresciuto, ma non ha dato origine a uno sviluppo economico autopropulsivo, endogeno e radicato territorialmente, si può anche affermare che tale intervento ha risolto alcuni problemi, ma ne ha anche creato di nuovi. Come evidenziato da Carlo Trigilia nel suo volume Sviluppo senza autonomia (Il Mulino, Bologna, 1992), alla disponibilità di spesa non si è accompagnata una corrispondente produzione interna, ma una sempre maggiore dipendenza dalla spesa pubblica.
L’intervento pubblico nelle pratiche di promozione dello sviluppo meridionale si basava su due protagonisti: la grande impresa industriale e lo Stato. Secondo Fabrizio Barca si è realizzato un “compromesso straordinario fra forze politiche e culturali, e interessi diversi che porta ad affidare il rilancio economico del paese ad un modello istituzionale assolutamente peculiare che, al liberismo istituzionale, al contenimento salariale e ai sussidi per i ceti medi, accompagna un forte intervento dello Stato incentrato sul modello […] degli enti pubblici […] ci si trova concordi nel ritenere che in strutture come l’IRI, l’ENI, la Cassa per il Mezzogiorno possono essere attratte le competenze tecniche e manageriali pubbliche per programmare gli investimenti e le reti essenziali alla rinascita”. [Fabrizio Barca, Programmazione economica e sviluppo sostenibile del territorio, in Ministero dei Lavori Pubblici. Conferenza nazionale del territorio. Le domande del Territorio, otto confronti per l’innovazione, INU, Roma, 2001 pag. 9].
Nella prima fase tale intervento si era concentrato sulle politiche agricole, sulla riforma agraria e sullo settore infrastrutturale. A partire dalla seconda metà degli anni Cinquanta si fa strada la convinzione che “il mercato non è in grado da solo, di assicurare l’avvio di una fase sostenuta di sviluppo e che occorra, di conseguenza, un insieme di interventi pubblici e di infrastrutture in grado di abbattere gli ostacoli che impediscono lo sviluppo. Si concepisce una politica di industrializzazione dall’alto che si propone di creare pre-condizioni di sviluppo e dare soluzione a due elementi di debolezza dell’economia italiana: da un lato la debolezza strutturale dell’industria manifatturiera meridionale, dall’altro la dipendenza dall’estero in materia di prodotti siderurgici ed energetici.
Per superare gli elementi di debolezza si pensa di realizzare impianti nei settori di base (siderurgia e petrolchimica) sulle coste del Mezzogiorno. Le teorie dei “poli di sviluppo” suggerivano inoltre la realizzazione di industrie (affidate ad ENI ed IRI) che avrebbero attivato processi di sviluppo e di concentrare in alcune aree le attività economiche tramite incentivi (finanziamenti agevolati e contributi a fondo perduto). Si mira “a un forte coinvolgimento delle imprese pubbliche, alle quali viene imposto l’obbligo di localizzare nel Mezzogiorno per almeno il 60% dei loro investimenti”.
[Carlo Trigilia, “Dinamismo privato e disordine pubblico. Politica, economia e società locali”, in AA. VV. Storia dell’Italia repubblicana. Volume secondo. La trasformazione dell’Italia: sviluppo e squilibri. Tomo 1 Politica, economia, società, Einaudi, Torino 1995, pag. 746].
In questi anni la diffusa tendenza a concepire lo Stato come un ente essenzialmente “redistributore” e a far ricadere sotto l’etichetta di “welfare state” ogni forma di intervento pubblico ha portato a sottovalutare le funzioni che esso avrebbe potuto svolgere in favore dell’attività economica e della promozione dello sviluppo locale. Il vizio di fondo sta nel fatto che si pensava che un forte investimento di spesa in opere pubbliche potesse creare una domanda di beni tale da attirare investimenti e sviluppo.
Carlo Trigilia ha sottolineato il contrasto fra crescita dei redditi e ritardo nello sviluppo anche come effetto delle politiche keynesiane, che hanno attribuito grande impegno al sostegno della domanda per sollecitare la produzione e l’occupazione. L’approccio keynesiano si basava, infatti, su processi redistributivi del reddito e su politiche di welfare. Si affermarono logiche emergenziali in base alle quali venivano legittimati provvedimenti di spesa fine a sé stessi. Anche gli enti decentrati della pubblica amministrazione Progressivamente la funzione degli enti locali si definì intorno alla gestione e al trasferimento redistributivo di risorse pubbliche. È lo stesso Trigilia a dimostrare come l’incremento del reddito meridionale non si è accompagnato, se non in misura limitata, a una maggiore autonomia economica e ad un aumento della capacità di produzione e a forme radicate di sviluppo autonomo.
Lezioni ancora valide per il periodo attuale in cui si discute di nuovi interventi per il Mezzogiorno a proposito dell’allocazione delle risorse del recovery fund
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