
27 Giu Modelli, ricercatori e politica: cosa è andato storto?
di Enrico Bucci
L’ultima cosa che faccio in queste sere di giugno è portare a spasso Sid, il mio cane. Nel fresco umido della sera, le lucciole si fanno vedere a volte numerose, e le raganelle si fanno sentire monotone – qualche volta accompagnate da un assiolo. L’aria odora di erba bagnata, perché il maggese è ancora nei campi; e, quando il tempo è sereno, la luna è alta a sufficienza da proiettare ombre.
Come tutto questo potrebbe essere reso in numeri?
Scrivere con la matematica
In realtà, la risposta non è troppo difficile da immaginare. La videocamera del nostro cellulare potrebbe tradurre in un flusso di numeri tutto ciò che si vede. Il suo microfono potrebbe fare lo stesso per i suoni che ascoltiamo. Uno spettrometro di massa e un gas cromatografo potrebbero identificare il grosso dei composti volatili che compongono gli odori che si sentono, traducendoli in altri numeri e formule chimiche che descrivano con buona approssimazione la realtà olfattiva. E, naturalmente, non sarebbe difficile misurare pressione atmosferica, forza e direzione del vento, umidità e temperatura dell’aria per riprodurre le sensazioni tattili e termiche.
Dunque, come intendeva Galileo del mondo fisico, “egli è scritto in lingua matematica”, e noi siamo in grado di scrivere una descrizione numerica di ciò che ci circonda, con un’accuratezza ed una precisione stupefacenti.
Nel passare dai nostri sensi al numero, tuttavia, si perde l’immediatezza sensoriale; tanto è vero che, se volessi ricostruire cosa vedevo nella mia passeggiata, non leggerò un flusso di bit, ma ri-tradurrò lo stesso in una immagine su uno schermo (o, nella realtà virtuale, su una maschera 3D per ricostruire ancora meglio ciò che ho visto).
Il passaggio ai numeri non serve infatti a rendere le sensazioni e la poesia di una passeggiata notturna, ma, come il sempre ottimo Galileo ricordava riguardo il mondo fisico, senza tradurre in numeri ciò che ci circonda “è impossibile a intenderne umanamente parola; senza questi è un aggirarsi vanamente per un oscuro laberinto”.
Il potere dei numeri
Qual è dunque il potere dei numeri, attraverso i quali possiamo intendere il funzionamento del mondo?
I numeri possono essere messi in relazione fra loro in modo semplice, e la descrizione di queste relazioni evidenzia proprietà non banali del mondo fisico a cui essi si riferiscono.
Per esempio, la frequenza del canto delle raganelle – cioè il numero di volte che un massimo di intensità viene raggiunto ogni secondo – ci rivela non solo la specie, ma anche la distanza massima a cui quel canto può essere udito nell’aria umida delle sere di giugno; e questo, a sua volta, ci dice qualcosa del comportamento riproduttivo dei maschi che devono attirare le femmine, e della struttura locale delle popolazioni di raganelle – quante sono, come si distribuiscono, come fanno ad essere udite individualmente nonostante tutte le altre cantino anche loro, eccetera. Per Galileo, e per tutti gli scienziati, è la scoperta di questa parte non immediatamente percepibile uno degli scopi principali della scienza; ed è possibile solo appoggiandosi a misure e studiando le relazioni tra i numeri che ne deriviamo.
Lo studio delle relazioni fra quantità misurabili, tuttavia, incontra un ostacolo: essendo le quantità che posso misurare infinite, è necessario fare una scelta di ciò su cui focalizzare la nostra attenzione, per poi far partire l’indagine quantitativa. Qui entra in gioco l’arte dello scienziato, ovvero la formulazione di un’idea della realtà, che sia sottoponibile a test attraverso le misure. Questa idea si chiama modello, e, dovendo essere confrontata con quantità misurate – cioè con numeri – è essa stessa di natura matematica. Gli scienziati più bravi sono coloro che riescono a formulare le teorie matematiche del mondo più interessanti, cioè che spieghino un gran numero di fatti, che siano meglio confrontabili con le misure (ovvero meglio sottoponibili a prova) ed infine che poggino il loro potere predittivo sulla misura di poche quantità (cioè che non siano troppo complicate e dipendenti da troppe variabili).
Quando uno scienziato formula un modello
Quando uno scienziato formula un modello, può accadere che egli si appassioni al modello stesso, perché la sua struttura matematica è affascinante, o perché le previsioni che ne derivano se questo fosse vero sono davvero interessanti; è per questo che, da Galileo in poi, la prova sperimentale è indispensabile, ed è per questo che i modelli o sono testabili o non sono.
I modelli che superano il vaglio di numerose previsioni di successo sono rari ma di grande valore, perché non solo descrivono bene ciò che si è già osservato in passato, ma siccome colgono il meccanismo di funzionamento di una parte del mondo fisico, sono in grado di prevedere anche cosa succederà ogni volta che si verificano determinate condizioni; dal che segue che se effettuo una misura, sono in grado con precisione ed accuratezza predeterminata di sapere cosa succederà in futuro.
Nell’esempio iniziale, il modello di funzionamento dei moti planetari e della luna è in grado di prevedere con precisione stupefacente cosa vedrò in cielo in una delle serate serene in cui porto a spasso Sid, ma anche di sapere quanto sarà alto il sole nel cielo in un punto qualunque del globo al momento del mio arrivo dopo un viaggio, permettendomi quindi di pianificare la mia giornata in un altro continente, senza avere sorprese all’arrivo.
In molti altri esempi, però, è la stessa teoria matematica con cui descrivo il mondo che, per sue proprietà interne, invece che una singola predizione di cosa accadrà, non può fornirmi altro che una descrizione di tutte le possibilità future, nel migliore dei casi con una diversa probabilità di verifica. È il caso della meccanica quantistica, che domina per esempio il modo in cui il genoma muta spontaneamente – e che quindi è alla base della produzione di quella variabilità di individui su cui, come Darwin ci ha insegnato, agirà poi la selezione naturale per determinare il cammino evolutivo di una certa popolazione o di una specie.
Infine, soprattutto di fronte ad un evento su cui non ho dati e sufficientemente diverso da quanti si sono verificati prima, le teorie matematiche che posso ideare non sono sottoponibili a prova se non dopo che sia trascorso tempo.
La domanda di scienza proveniente dalla politica e dalla società
Fatte queste necessarie premesse, dobbiamo tuttavia constatare che la domanda di scienza proveniente dalla politica e dalla società – una domanda che si auspica, nell’idea che la scienza possa fornire elementi di giudizio più affidabili rispetto ad altre fonti – è sempre la stessa e non tiene conto dei diversi tipi di previsioni possibili: cosa succederà, date quello che osserviamo oggi, oppure nel caso in cui si decida di attuare un certo comportamento o si verifichino determinate condizioni?
La società e la politica, cioè, si aspettano sempre lo stesso tipo di risposta, indipendentemente dal tipo di questione che intendono affrontare; il grado di incertezza irresolubile di certi problemi – quali l’evoluzione verso una maggiore o minore virulenza di un patogeno – o l’indeterminazione di situazioni nuove, in cui non disponiamo né di dati, né di esperienza pregressa in situazioni sufficientemente simili, non è atteso da chi deve decidere quanti posti letto preparare negli ospedali o che tipo di misure di sicurezza adottare in caso di epidemia, o perfino che tipo di farmaci somministrare a chi arriva in ospedale.
Questa è la difficoltà cruciale che un ricercatore deve affrontare quando la politica (e la società) devono prendere decisioni in presenza di un evento pericoloso per il quale non siano disponibili ancora dati e teorie consolidate, oppure per il quale la teoria stessa ci dice che non è possibile fare previsioni circa un solo possibile sviluppo o poche alternative: dare risposte in cui sia evidenziato il grado di incertezza, più che il contenuto stesso della previsione, facendo al contempo comprendere quale sia l’utilità di tali risposte.
A che servono i modelli previsionali
A che servono quindi modelli previsionali affetti da un grado così elevato di incertezza, da produrre come risultato un insieme di scenari possibili troppo vasto, rispetto alla richiesta di una previsione singola con un certo grado di probabilità?
1- Innanzitutto, se abbiamo anche qualche minima informazione su ciò che sta capitando – per esempio, nel caso di COVID-19, la sequenza del genoma virale, o la sintomatologia indotta – possiamo cominciare a sfoltire il numero dei possibili comportamenti dell’epidemia, eliminando ciò che è incompatibile con quello che abbiamo osservato – per esempio, possiamo ragionevolmente escludere che i coronavirus inducano cancro, come fanno altri virus, o che in ospedale si presenteranno molti pazienti con febbri emorragiche, che sono causate da virus del tutto diversi, oppure che l’aspirina basti a far passare la malattia. Si noti bene: se non sapessimo che la malattia COVID-19 è causata da un coronavirus, la scambieremmo per un’influenza, e tenderemmo a curarla di conseguenza; il che è precisamene ciò che è accaduto in Cina, prima di accorgersi che modellare la malattia come un’influenza era errato e non funzionava.
2- In secondo luogo, sulla base anche solo di parametri misurati su virus simili – i coronavirus del raffreddore, della SARS e di MERS – è possibile prevedere un ventaglio di scenari quantitativi per i morti, i malati e gli infetti, prima ancora che l’epidemia sia in fase avanzata; questo è ciò che è avvenuto prima che fossero disponibili dati (peraltro qualitativamente pessimi) sul coronavirus attuale.
Questo “fascio di predizioni”, derivato dall’applicazione di un modello in cui faccio variare i parametri che uso fra gli estremi osservati in situazioni simili, ha un grandissimo merito: non è in grado di predire accuratamente cosa succederà, ma è una ragionevole stima del peggio e del meglio che potrebbe capitare.
Purché il fascio di scenari non sia così ampio da comprendere ogni possibile situazione concepibile, e purché i modelli usati per fare i calcoli non facciano assunzioni irrealistiche – il che, purtroppo, è accaduto nel caso di certe predizioni epidemiologiche cui alcuni governi si sono affidati, che assumevano per esempio il mescolamento equiprobabile di tutti i cittadini della nazione interessata – questo metodo ha la grandissima utilità di indicarci cosa ci potrebbe capitare nel peggiore dei casi, permettendoci sia di prepararci, sia soprattutto di decidere se si tratta di un rischio che vogliamo correre, bilanciando interessi molto diversi come quello alla salute, quello ad un tenore di vita decente, quello alla libertà di movimento e di impresa eccetera.
Come la politica rischia di usare la scienza
Questo è quindi ciò che si può e si deve chiedere ai ricercatori, che quando fanno previsioni sono tutti modellisti: di stare estremamente attenti alle assunzioni dei propri modelli, di stimare correttamente l’incertezza sui parametri derivante dalla bontà delle misure effettuate, ed infine di non sovrainterpretare il valore delle predizioni ottenute.
Perché se invece la politica si attende una ed una sola previsione (non importa con quale margine di errore), se i ricercatori comunicano scenari basati su modelli mal formulati ed inadatti, se la comunicazione si focalizza sui casi più utili a riempire i titoli e ad attirare l’attenzione, allora otterremo quello che è accaduto in Italia durante l’epidemia di COVID-19: per tornare al mio raccontino iniziale, scambieremo lucciole per lanterne, e la scienza, invece che aiutare la politica, ne diventerà presto il capro espiatorio utile a nascondere le proprie responsabilità nel disastro.
Giovanni Bonetti
Pubblicato il 08:43h, 30 GiugnoBellissimo articolo comprensibile anche da un profano: sintesi tra scienza e politica al tempo del Covid 19.
Anna Rita Fiore
Pubblicato il 11:51h, 02 LuglioMagnifico articolo.