
18 Gen Next Generation EU: l’Italia non avrà futuro se non metterà in rete il Sud
di Leandra D’Antone
La sfida dell’interconnessione europea
Agli esordi del 2000, a otto anni dal trattato di Maastricht istitutivo dell’Unione europea, a cinque dalla conferenza di Barcellona che aveva fissato al 2010 la realizzazione della Zona mediterranea di libero scambio, avviata la moneta unica, sembrava essersi aperta davvero una nuova storia per l’Europa, l’Italia e le sue regioni meridionali. La nuova storia era rappresentata in maniera icastica dalla strategia continentale delle connessioni fisiche mediante grandi corridoi multimodali, destinati a dispiegarsi dal Nord verticalmente e trasversalmente fino al Sud dell’Unione, indicandone la Sicilia come porta mediterranea in uscita e in entrata. Grazie all’Euro e alle nuove politiche regionali europee, e, con l’istituzione in Italia del Dipartimento per le politiche di coesione e sviluppo nell’ambito del Ministero del Tesoro, del Bilancio e della Programmazione economica, si poteva inaspettatamente persino tornare a parlare del Mezzogiorno italiano, un’area geografica e “una denominazione” caduti nel massimo discredito in quanto ormai considerati rappresentativi dei peggiori mali: criminalità, corruzione, clientelismo, inefficienza delle classi dirigenti. Nei fatti, dopo un ventennio di accumulo di un colossale debito pubblico per vizi più vistosi e concentrati al Sud, ma condivisi dall’intero paese, il picco dell’antimeridionalismo e della protesta leghista si erano raggiunti dacché i parametri di Maastricht nel 1992 avevano messo l’Italia di fronte alla necessità di ripartire tra territori e ceti sociali i necessari sacrifici e di abbandonare comportamenti viziosi talmente consolidati da apparire come diritti (c’è una somiglianza con i fenomeni antisistema attuali, definiti populisti con una espressione a mio parere fumosa).
Il grande sistema Trans-European Transport Network (TEN-T) definiva la nuova geografia e l’economia di un continente in divenire (un mercato di 450 milioni di cittadini, con un Parlamento, una Commissione al vertice, ma senza unione fiscale e politica). Il TEN-T era ispirato all’intermodalità con integrazione dei trasporti terrestri, marittimi e arei; alla volontà di dare maggiore e più efficace estensione al traffico ferroviario ridimensionando quello stradale molto inquinante, andando nella direzione della riconversione Green. Tre grandi corridoi TEN-T interessavano l’Italia: l’asse Berlino-Palermo comprensivo dell’attraversamento stabile dello Stretto, il collegamento ferroviario e stradale Lione-Torino-Milano-Bologna-Venezia-Trieste-Lubiana-Budapest-Kiev e il progetto strada-ferrovia-traghetto da Bari verso l’Est europeo attraverso l’Albania. In quelle circostanze l’Italia aveva disegnato il suo primo Piano integrato dei trasporti e della logistica e, nel 1996, il Governo Prodi aveva avviato il processo di valutazione per la realizzazione del Ponte sullo Stretto di Messina, che nel 2002 , insieme alla linea ad alta velocità Berlino-Palermo, era stato inserito nella Short List del Commissario Kerel Van Miert, la lista comprensiva delle opere strategiche europee di immediata realizzazione col contributo della Banca europea degli investimenti.
Il Mezzogiorno che funziona
Agli esordi del 2000 erano già evidenti i segni del declino industriale italiano e della degenerazione di un sistema politico e partitico caratterizzato da maggioranze instabili, dall’intreccio perverso tra correnti di partiti e imprese pubbliche e private, col risultato di ridurre la competitività di tutto il sistema imprenditoriale del paese e di accentuare la divergenza tra grandi aree territoriali (non tanto in termini di Pil, quanto di qualità del sistema industriale, di governo del territorio e dei servizi). E tuttavia da diversi anni, un gruppo di storici e scienziati sociali, raccolti sotto al direzione di Piero Bevilacqua, intorno all’Istituto meridionale di storia e scienze sociali, alla rivista “Meridiana” e alla casa editrice Donzelli, raccontava la storia del Mezzogiorno differenziato, inserito in maniera vitale nelle relazioni internazionali: il “Mezzogiorno che funziona”, per le sue imprese innovative, internazionalizzato, pronto a radicalizzare il pur circoscritto cammino di crescita virtuosa valorizzando le migliori risorse sottoutilizzate. Le politiche regionali europee per il riequilibrio territoriale, la nascita nel 1998 del Dipartimento per le politiche di sviluppo e coesione nell’ambito del ministero dell’Economia, Bilancio e Programmazione economica, il “movimento dei sindaci”, inauguravano effettivamente una stagione politica in cui le regioni del Sud sembrarono poter interpretare un ruolo protagonista.
In quel contesto curai nel 2001 il numero monografico di “Meridiana” Il Ponte sullo Stretto Messina con la collaborazione i nostri migliori ingegneri e specialisti di economia dei trasporti che avevano portato a termine gli studi di fattibilità e di impatto (tra Agostino Nuzzolo che scrive anche per questo Quaderno); e con la partecipazione attiva di Fabrizio Barca e Gaetano Fontana, curatori per la pubblica amministrazione del Rapporto di sintesi della Direzione generale di coordinamento territoriale, rapporto contenente la valutazione degli impatti trasportistico, economico e ambientale dell’opera negli scenari alternativi. Il nostro scopo era la consapevolezza della storia e delle ragioni dell’infrastruttura. Per contribuire alla chiarezza della scelta, spettante ovviamente alla politica, volevamo rendere evidente la qualità degli studi svolti per gare internazionali, le più recenti verifiche di fattibilità e la qualità delle procedure che ne facevano un modello sia per la decisione relativa alla realizzazione o meno di grandi opere, sia per l’intero operare della nostra pubblica amministrazione. Nel 2004 con Carmine Donzelli ritenemmo necessario fare il punto sul tema delle infrastrutture di trasporto nel Mezzogiorno e evidenziare il nesso strettissimo tra la crescita culturale, economica e sociale e lo sviluppo di reti di connessione, coinvolgendo nella nostra riflessione ancora le migliori competenze tecnico-ingegneristiche ed amministrative.
La questione dei trasporti tra Nord e Sud nella lunga durata della storia italiana
La storia dell’Italia unita diceva che le migliori politiche pubbliche trasportistiche, caratterizzate dall’accessibilità dei territori e dalla valorizzazione di tutte le risorse produttive territoriali, avevano caratterizzato anche le fasi migliori non solo della vita delle regioni meridionali italiane, ma di quella dell’intero paese. Questo era avvenuto nel corso dell’intera storia dello Stato liberale prefascista, che, dovendo costruire una nazione senza dovizia di materie prime e capitali, aveva puntato sulla massima valorizzazione delle risorse produttive presenti in tutte le regioni italiane e favorito con le modalità più appropriate ai sistemi produttivi territoriali, i flussi delle merci e la mobilità degli uomini. Alla fine dell’età giolittiana l’Italia aveva compiuto la sua trasformazione industriale, concentrata notoriamente nel triangolo settentrionale, tenendo attiva sia la bilancia commerciale che quella dei pagamenti. Quando nei primi anni Venti il ministro delle Finanze di Mussolini, Alberto De Stefani, aveva contabilizzato la spesa pubblica nel settore dei trasporti, la ripartizione degli investimenti era risultata sostanzialmente fatta con equità territoriale e intelligenza strategica del valore delle connessioni. Riguardo alle opere ferroviarie, realizzate in concessione, col concorso dello Stato e di capitali esteri, oltre 1 miliardo e 500 milioni erano andati al Nord, oltre 792 milioni al Centro, oltre 1 miliardo e 284 milioni al Sud. Quanto alle opere stradali la ripartizione era risultata di oltre 173 milioni al Nord, quasi 150 milioni al Centro, oltre 752 milioni al Sud e isole. Per le opere marittime erano stati effettuati pagamenti per oltre 750 milioni di cui al oltre 254 milioni al Nord, oltre 129 milioni al Centro, e oltre 330 milioni al Sud e isole; di questi ultimi circa 1/3 al porto di Napoli allora quarto porto italiano per merci caricate e scaricate (prima dei porti di Livorno, Ancona e Venezia). Alla vigilia della prima guerra mondiale Il Pil del Sud d’Italia, pur ridotto rispetto al momento dell’unificazione, era l’80% di quello del Centro Nord (oggi è poco più della metà), indicando di una divergenza ancora molto contenuta e statisticamente non patologica.
A conclusione della seconda guerra mondiale, quando le politiche autarchiche fasciste e le distruzioni belliche avevano isolato il Mezzogiorno facendo crollare il Pil a circa metà di quello del Centro-Nord, un “interesse straordinario per il Mezzogiorno” maturato nelle istituzioni internazionali e italiane, che in Italia aveva portato tutte le imprese e banche italiane ad aderire alla Associazione per lo sviluppo dell’Industria nel Mezzogiorno (Svimez), aveva posto al centro dell’agenda politica ed economica della Ricostruzione il superamento del divario Nord-Sud, mediante radicali riforme in agricoltura e investimenti straordinari nelle infrastrutture di ogni tipo, da quelle idriche, a quelle energetiche, a quelle trasportistiche. Negli anni 50-70 in tema infrastrutturale furono affrontate le due partite fondamentali per mettere le regioni del Mezzogiorno in rete, con esiti e per ragioni diverse destinati ad incidere sul destino del Mezzogiorno e del suo sistema di connessioni: il prolungamento dell’autostrada del Sole, realizzata dalla Società autostrade dell’Iri da Milano a Napoli, fino a Reggio Calabria, e la realizzazione del collegamento stabile stradale e ferroviario tra la Sicilia e il Continente.
Nel pieno del ciclo tecnologico dei trasporti stradali, all’inizio degli anni ’60, la politica italiana, dal governo Fanfani all’allora Ministro dei Lavori pubblici, il cosentino Giacomo Mancini, decise che al Sud bastasse una autostrada diversa da quelle del Centro-Nord. Decise che essa dovesse servire tre regioni e collocarsi in gran parte in montagna, quindi con corsie meno larghe, pendenze maggiori e tempi di percorrenza più lenti, anziché seguire il percorso più breve costiero tirrenico ; e, ancora, che i cittadini meridionali non vi dovessero pagare il pedaggio perché toppo poveri ( in realtà per evidenti ragioni clientelari, visto che, in un periodo di rivoluzione della mobilità su strada per uomini e merci, il pedaggio, lo avrebbero pagato in tutto il resto della rete). La Salerno-Reggio Calabria, opera di altissimo valore ingegneristico, ma con minore valore trasportistico, fu costruita e gestita dall’Anas e divise l’Italia in due diversi sistemi di mobilità, di regole e di cittadinanza.
Collegare la Sicilia alla penisola
Negli stessi decenni fu perseguito l’obiettivo, allora condiviso da istituzioni, imprese e cittadini, di realizzare un collegamento stabile tra la Sicilia e il Continente e, a conclusione di un bando internazionale di gara aperto da Anas e Ferrovie dello Stato con e le regioni Sicilia e Calabria. La gara mise a confronto tre modalità (ponte a campata unica, tubo flottante sottomarino e galleria sottomarina); con accurata valutazione tecnica si arrivò alla decisione di realizzare il Ponte sospeso stradale e ferroviario a campata unica affidandone la progettazione ad una società dedicata, la Società Stretto di Messina, a maggioranza IRI. Il progetto di massima fu consegnato solo nel 1991, poiché nel frattempo l’interesse generale, compreso quello dell’Iri per una grande opera infrastrutturale nel Sud, era del tutto caduto. Nel 1996, come ricordato, il primo governo Prodi mise all’ordine del giorno del Consiglio superiore dei lavori pubblici il progetto di massima del Ponte a campata unica; ma il subentrare del governo Berlusconi (favorevole alla realizzazione e a continuare la procedura amministrativa) determinò un volo spericolato della sinistra italiana: il Ponte divenne irrimediabilmente “opera faraonica”, affare per la mafia, contraria agli interessi del Sud, ad ogni cambio di governo, bisognoso di “ben altro”.
In questo difficile scenario, la svolta dell’Euro e delle grandi reti europee sembrò riaprire per il Mezzogiorno una partita sostanzialmente chiusa. Con il volumetto La rete possibile (Donzelli 2004) volemmo perciò riassumere le ragioni del passato e le speranze di futuro; pur sapendo quanto sarebbe stato difficile in Italia, in pieno dispiegarsi di ideologie e politiche leghiste trasversali a tutti i partiti italiani, spostare verso il Sud scelte di investimenti strategici che avevano già preso da diversi anni una direzione territoriale contraria. Peraltro già dal 2001, nella nostra Costituzione e senza che nessuno protestasse, era stato introdotto il nefasto titolo V, dando alle Regioni incredibili poteri di veto antitetici agli interessi nazionali soprattutto in materie fondamentali come la Sanità e trasporti.
L’ultimo ventennio: un bilancio deludente
Ed ecco in breve il bilancio deludente dell’ultimo ventennio, per quanto non del tutto imprevisto: tra il 2004 ed oggi nessun investimento strategico e innovativo e con logica di sistema è stato fatto nel Mezzogiorno in materia di reti di trasporto e logistica. Il Piano nazionale integrato è stato completamente abbandonato. Le pur importanti opere relative a porti, aeroporti e collegamenti urbani, sono state realizzate con l’uso dei fondi strutturali europei (www.opencoesione.it), sostanzialmente con spesa sostitutiva e non aggiuntiva, straordinaria e non ordinaria. L’Alta velocità ferroviaria (300/500 km orari) si è estesa esclusivamente a tutto il Centro-Nord, confinando a Sud con Napoli-Salerno, non a caso il confine Nord della autostrada Salerno-Reggio Calabria, nel frattempo adeguata ai requisiti indicati dall’Unione, con la realizzazione della corsia di emergenza, ma rimasta autostrada sostanzialmente di montagna con le caratteristiche connesse. La Sicilia, seconda regione più popolata d’Italia dopo la Lombardia, con un immenso patrimonio culturale e ambientale, istituzioni scientifiche di qualità e imprese innovative, è pressoché priva di collegamenti ferroviari: la rete meridionale è sostanzialmente rimasta quella ottocentesca, solo parzialmente ammodernata, con tratte ancora non elettrificate e a doppio binario usate soprattutto da viaggiatori pendolari.
Per qualsiasi collegamento dominano i trasporti su strada, con larghissimo uso del mezzo individuale. Il sistema autostradale meridionale, pur con un notevole miglioramento della percorribilità nell’unica autostrada longitudinale da Salerno alla Calabria, presenta gravissime carenze e non solo di manutenzione. Il tratto tra Villa San Giovanni e Reggio Calabria non è stato mai adeguato, né sono state adeguate le connessioni dell’autostrada con i centri urbani calabresi. Allo stesso modo le autostrade siciliane mancano delle tangenziali intorno ai grandi centri urbani: particolarmente grave è il caso di Palermo, grande città di 700.000 abitanti, attraversata nel suo centro dall’inteso traffico di auto provenienti dall’autostrada da Catania e dirette soprattutto verso il trapanese. Nonostante la larghissima dominanza in Sicilia dell’autotrasporto restano scandalosamente incompiute o prive di manutenzione molte autostrade siciliane. I collegamenti con gli aeroporti sono ovunque affidati prevalentemente a mezzi individuali.
Dalla convergenza alla divergenza
La crisi finanziaria del 2007-2011 ha interrotto il significativo, per quanto debole processo di convergenza Nord-Sud verificatosi tra il 1998 e il 2006 nel contesto delle nuove politiche regionali europee di sviluppo e coesione territoriale. Il Ponte sullo Stretto di Messina è stato cancellato, insieme all’Alta velocità ferroviaria, dal core del sistema di connessioni strategiche europee, per scelta esclusiva del governo italiano e per insipienza delle regioni meridionali, prima fra tutte la Sicilia incapace di cogliere, prima che di far valere, le giuste esigenza di accessibilità e di una mobilità efficiente. Le emergenze migratorie, le guerre nordafricane e il terrorismo hanno allontanato la prospettiva euro-mediterranea a favore di una UE a trazione mitteleuropea e orientata ad Est, neutralizzando la formazione della Zona di libero scambio e facendo perdere centralità ai porti meridionali. Questi ultimi hanno perduto parte della loro enorme potenzialità con la ridefinizione dell’asse Berlino-Palermo e con la sua deviazione nell’Adriatico, oltre che per l’assenza di una valida rete di comunicazioni terrestri con conseguente indebolimento del sistema produttivo territoriale. In conseguenza anche Gioia Tauro ha perduto il suo primato mediterraneo a vantaggio di porti greci, nordafricani e de La Valletta, nel colossale traffico di transhipment di grandi navi-containers in transito dal Far West al Far Est.
La pandemia: una possibile opportunità per il Sud
In questo Sud nei fatti oscurato per tutto l’ultimo trentennio nelle scelte pubbliche nazionali e regionali, la crisi finanziaria del 2007-2011 si è abbattuta come una scure sulla produzione industriale, sul lavoro e sui consumi, che sono crollati di oltre il doppio rispetto a quelli del Centro-Nord, e la cui ripresa relativa era già più lenta prima che l’attuale pandemia mettesse completamente in ginocchio l’economia dell’intero paese. Il Sud ha perduto e perde i giovani e le donne più qualificati, ha inaugurato una sorprendente inversione della curva demografia, innestando una contrazione irreversibile di futuro. I rapporti Svimez da tempo ricordano come non si tratti solo del presente e del futuro del Sud, ma anche di quello delle regioni del Nord, ancora avanti a quelle del sud nella misura degli indicatori economici e sociali, ma precipitate nella graduatoria delle regioni europee. Il Presidente della Svimez Adriano Giannola ha spiegato bene e lo ribadisce anche in questa sede, come solo la prospettiva mediterranea, e quindi meridionale, possa oggi ridare forza ad un’Europa altrimenti perdente.
Il carattere globale della attuale pandemia con le sue gravissime conseguenze economiche e sociali, ha riacceso le luci dell’Unione europea sugli investimenti fondamentali per la ripresa dell’economia, necessariamente lungimiranti, dunque con al centro per le giovani generazioni in maggiori difficoltà nelle sue aree più deboli; sulle giovani generazioni infatti ricadrà l’enorme debito già accumulato con gli sprechi del passato, ed ora anche legato all’emergenza sanitaria ed economica. Le uniche politiche lungimiranti non possono che rimettere al centro dell’azione gli investimenti industriali e nei servizi, quindi anche e fondamentalmente nell’accessibilità e nelle reti di mobilità e di connessione, materiali e immateriali. Si tratta di investimenti rilevanti nella generazione di reddito, ma anche fondamentali ai fini del rafforzamento della ricerca e dell’innovazione tecnologica, della crescita delle attività produttive, dell’occupazione, del risanamento ambientale (dalle reti digitali, a quelle trasportistiche e logistiche, a quelle energetiche, tutte essenziali per la riconversione green).
Nell’ultimo anno, il governo in carica, sebbene mostrando parallelamente una incomprensibile virata ideologica statalista e persino anti-imprenditoriale, sembrava voler dare alla sua azione una nuova impronta meridionalista facendosi portatore, per iniziativa del Ministro per la Coesione territoriale Peppe Provenzano, di un grande “Piano per il Sud” (ancora in verità definito solo grandi linee definito) da porre al centro delle politiche nazionali. Oggi l’Unione europea ha indicato chiaramente il Mezzogiorno come prioritario spazio di una politica di riqualificazione produttiva e ambientale che guardi al futuro (oggi compromesso) delle giovani generazioni, mettendo a disposizione dell’Italia la quota più consistente delle risorse del Recovery Fund.
La scomparsa delle infrastrutture meridionali nel Next Generation Italia
Leggiamo proprio in questi giorni con autentico sgomento la prima bozza del PNRR, il documento di programmazione degli investimenti per 208 miliardi (127 prestiti 81 miliardi a fondo perduto) di UE Next Generation assegnati all’Italia dall’Unione europea. Non solo colpisce la misteriosa oltre che generica logica che ha ispirato la ripartizione delle risorse, tra cui limitatissime quelle assegnate alla sanità, ma suscita persino indignazione la scelta delle opere trasportistiche e di attrezzature logistiche da realizzare nel Mezzogiorno entro il 2030: non vi figura alcun porto meridionale, sulla cui essenza produttiva “mediterranea” anche in considerazione dei trasporti energetici insiste Pietro Spirito; quindi neanche le Zone economiche speciali strettamente legate alla portualità, su cui qui insiste il Presidente della Svimez Adriano Giannola. Non vi figura il Ponte fra la Sicilia e la Calabria, opera ben valutata e progettata, cantierabile, anzi già cantierata, sulla quale incombe il fumo del tutto ideologico di un ipotetico tubo flottante preso in considerazione solo perché gradito ai 5stelle (peraltro già considerato ed escluso dai precedenti studi approfonditi sull’attraversamento) e qui ne argomentano, come tratto essenziale dell’Alta Velocità ferroviaria per tutto il Mezzogiorno compresa la Sicilia, Agostino Nuzzolo e Corrado Rindone. Ma soprattutto non vi figura la vera Alta Velocità, uguale a quella del resto della rete ferroviaria italiana, già in gran parte realizzata con una notevolissima spesa di oltre 100 miliardi di euro, distribuita tra tutte le regioni italiane. Vi figura invece l’Alta velocità di rete, con limite a 200 km orari, che come dimostrano le riflessioni di Francesco Russo e Agostino Nuzzolo-Corrado Rindone, non corrisponde nemmeno agli elementari riferimenti tecnico-logistici che ispirano oggi le decisioni urgentissime di ammodernamento della rete. Non basta, dice Russo, sostituire i vecchi treni con un treno a striscia rossa parlare di alta velocità! Non vi figura alcun porto meridionale, ma solo i porti di Genova e Trieste, e ne mette in rilievo la funzione essenziale in relazione al tessuto economico Pietro Spirito, che ha presieduto finora l’Autorità portuale di Napoli e ha visto indebolirsi sistemi logistici di grande potenzialità per la mancanza di una vera strategia riguardante le funzioni specifiche dei porti mediterranei. Non vi figurano interventi essenziali per gli aeroporti meridionali e per il trasporto aereo sulle cui caratteristiche si sofferma attentamente Mario Sebastiani, interventi che costituiscono l’unica mobilità veloce oggi esistente dal Mezzogiorno al Centro-Nord, con costi elevatissimi per la mancanza di alternative, e nonostante la presenza di compagnie low-cost. Nella bozza di Recovery si fantastica persino di un nuovo aeroporto internazionale nell’area dei Nebrodi, in mezzo al deserto infrastrutturale e lontano dai gangli vitali dei transiti.
Proposte concrete per il futuro
Questo Quaderno non è stato programmato solo per richiamare con forza l’attenzione su una occasione che potrebbe essere sprecata con conseguenze drammatiche e opposte ai bisogni urgenti dei giovani e dei cittadini delle regioni meridionali. Tutti gli esperti coinvolti hanno unito analisi e proposte, non idee generiche, ma progetti precisi e concreti da realizzare con la massima urgenza. Un governo che si definisce meridionalista sta per dividere ancor di più l’Italia in due, come già avvenuto quando fu costruita da bravissimi ingegneri, in tempi record, una autostrada diversa per il Sud, in nome di ragioni sociali. Il Sud non è una questione sociale come da due anni è tornato ad essere trattato nelle politiche pubbliche. E’ ricco di risorse culturali di valore mondiale, lo ricorda qui Lucia Trigilia, che oltre a insegnare Storia dell’Architettura moderna all’Università di Catania, ha fondato e dirige il Centro internazionale di studi sul barocco. Siti Unesco patrimonio dell’umanità restano difficilmente accessibili e pessimamente serviti. E’ ricco anche di risorse imprenditoriali che pur tra mille difficoltà percorrono la strada della Ricerca & Sviluppo e dell’internazionalizzazione: ne troviamo l’ultima testimonianza nel recente Rapporto di Studi e ricerche per il Mezzogiorno. Dispone di straordinarie risorse umane mortificate e spinte massicciamente e in forma permanente fuori dai loro contesti per la formazione e la costruzione del proprio futuro. Quel che di grave potrebbe accadere sotto i nostri occhi ci sembra davvero troppo!
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