
16 Feb Non dimentichiamo i distretti industriali
di Francesco Gastaldi
Nonostante le crisi, i fenomeni di globalizzazione sempre più marcata, delocalizzazioni e ri-articolazioni produttive e aziendali, ancora oggi, uno dei tratti più rilevanti dell’attuale struttura produttiva italiana è costituito dai distretti industriali, dalle aree ad imprenditorialità diffusa e dai sistemi produttivi locali. Le zone distrettuali hanno dimostrato nel corso di questi anni straordinaria vitalità e competitività nei processi di internazionalizzazione dei mercati, apertura all’innovazione, la massima velocità di adattamento alle variazioni della domanda e una discreta capacità del sistema delle imprese di reagire a fattori congiunturali e di crisi.
Queste aree si caratterizzano per un particolare modello di sviluppo imperniato sulla presenza di una molteplicità di piccole medie imprese che operano in un ambito circoscritto, in centri di dimensione medio-piccola e spesso secondo un continuum territoriale che è stato definito con il termine di “città diffusa”. Il successo di queste aree caratterizzate da queste forme di organizzazione socio-economica è stato inaspettato e la teoria economica ha avuto difficoltà a riconoscere la significatività del fenomeno.
Le particolari relazioni che, in questi contesti si instaurano fra saperi tecnici, abilità economico-finanziarie, aspetti sociali, culturali e istituzionali, secondo un nesso circolare e sinergico, costituiscono un alto fattore competitivo per la produzione. Come è noto il peso economico di questi sistemi locali, in termini di occupazione, produzione ed esportazioni costituiscono il motore portante e distintivo dello sviluppo italiano.
Il ritardo nella comprensione dei connotati dei distretti, ha caratterizzato la sinistra italiana, ancora fino agli anni Ottanta legata ad una visione della produzione trainata dalla grande impresa e da un lavoro di tipo fordista e operaistico. Il modello dei sistemi locali e dei distretti, è diverso da quello delle grandi imprese, non solo sotto il profilo organizzativo e aziendale, ma anche per i meccanismi di regolazione socio-economica, era poco tematizzato, sottilmente considerato come costituito da lavoratori di serie B. Prevale, forse, un (pre)giudizio politico sul modello di sviluppo esterno alla possibile mobilitazione della “classe operaia”.
Mentre tutti gli osservatori economici iniziavano a riconoscere come la produzione dei distretti industriali era sempre più una parte quantitativamente, e più ancora strategicamente, importante nel sistema produttivo italiano, le forze politiche e sindacali di sinistra registrano ritardi e inerzialità inaudite nell’evidenziare problemi emergenti e necessità, anche territoriali, di questa parte di mondo del lavoro. In questi ambienti, la consapevolezza della particolare natura distrettuale dello sviluppo economico italiano è stata lenta e non immediatamente accettata, forse perché sviluppata dal basso a partire dal tessuto artigianale senza clamori.
Venne a metà degli anni Novanta l’emiliano Romano Prodi che all’inizio della sua carriera accademica aveva studiato lo sviluppo delle piccole e medie imprese della ceramica e dei distretti industriali, ne parlò nelle fortunate lezioni di economia in Rai ai primi anni Novanta (e poi nel libro: Romano Prodi, Il tempo delle scelte Edizioni Il Sole 24 Ore, 1992) e poi nell’azione politica con l’Ulivo e il Centrosinistra. Con il Governo Prodi, sbarca a Roma come ministro dell’industria, commercio e artigianato, il presidente della regione Emilia Romagna Pierluigi Bersani. Nei primi anni Duemila i responsabili economici di DS (Bersani) e Margherita (Enrico Letta), entrambi ministri dell’Industria nei precedenti governi di centrosinistra, effettuano una ricognizione nell’Italia delle piccole imprese che sfocia in una pubblicazione edita da Donzelli editore.
Tutti parlano dei distretti, del Made in Italy, di successi nell’export, del mitico Nord-Est, ma nel frattempo avvengono mutazioni profonde, spesso la locomotiva distrettuale ha corso velocemente, ma non ha saputo nello stesso tempo adeguare il motore alle nuove esigenze della competizione. Con la crisi del 2007-2008 le imprese che non attraversano segnali di grave crisi, spesso già internazionalizzate e con una dimensione aziendale consistente, hanno scelto di trasferire la produzione all’estero, sperando in vantaggi sotto l’aspetto dell’ambiente fiscale e amministrativo.
In altri casi il sistema economico ha dimostrato un certo grado di flessibilità nell’adattarsi ai cambiamenti della domanda di lavoro, ma il futuro permane incerto. Nessuno avrebbe potuto immaginare che l’area traino del dinamismo economico del Paese, potesse avviarsi verso una spirale di potenziale debolezza. Ma nel frattempo la sinistra, anche nelle sue componenti riformiste e più attente ai processi di modernizzazione e alle esigenze dei “produttori”, dove è?
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