
02 Lug Oltre il concetto di sovranità: istituzioni diffuse al servizio della libertà d’impresa
di Luca Romano
Al di là di tutte le impostazioni dottrinarie e del loro gusto per le differenziazioni astratte, è evidente, ovunque nel mondo, che la distinzione tra “Stato” e “mercato”, o tra “pubblico” e “privato”, si sta completamente riconfigurando con commistioni, interazioni e opposizioni sempre più difficili da classificare in modelli plasticamente dualistici.
Non è un caso che si stia affermando la locuzione “capitalismo politico” incarnato da USA e Cina, che inesorabilmente genera dinamiche da contaminazione e ridisegna il profilo della globalizzazione.
L’idea di affidare ai mercati finanziari autoregolati la governance del sistema globale si è fortemente incrinata dal 2007 – 2008 e, con l’accelerazione da pandemia, si stanno esplorando prove tecniche di altre egemonie. Cerchiamo di capire quali sono queste egemonie e quali difficoltà stanno incontrando.
‘Nazionale’ e ‘strategico’ sono diventati due termini intercambiabili
La pandemia ha innescato un confronto molto acceso sul ruolo dello Stato in rapporto all’economia e, in realtà, le azioni più significative, soprattutto in Francia e in Germania, hanno riguardato la protezione delle imprese di interesse nazionale a rischio scalabilità.
In Italia con particolare insistenza Romano Prodi ha voluto lanciare un suo messaggio in questo senso. Inoltre non pochi osservatori non hanno mancato di vedere nei sostegni politici della Francia alle ragioni dell’Italia uno scambio occulto con un allargamento della sfera di interessi transalpini su grandi imprese industriali e finanziarie nostrane.
Prodi ha tenuto a precisare che la sua presa di posizione non aveva nulla di sovranista, ma di genuina difesa dell’interesse nazionale degli asset strategici. ‘Nazionale’ e ‘strategico’ sono diventati due termini intercambiabili. Per una fase sono stati applicati anche alla fornitura di massa dei dispositivi di protezione individuale come le mascherine anticontagio.
Il sostegno pubblico per ragioni di protezione strategica degli asset nazionali è un argomento estremamente aleatorio se commisurato alla natura controversa degli interessi in gioco. Se spostiamo il focus sulla Germania stiamo assistendo, come effetto di Covid e delle risposte alla crisi che ha innescato, a un passaggio epocale della sua politica economica e, contestualmente, del modello di integrazione europea cui essa fa riferimento.
Il nuovo corso keynesiano di Angela Merkel
Nel trentennio prima della globalizzazione, infatti, la Germania ha adottato il criterio ordoliberista dell’economia sociale di mercato per fissare, in termini strutturalmente antikeynesiani, il rapporto tra Stato e mercato. L’ispirazione liberale, alimentata dal rifiuto radicale della temperie dell’intervento dello Stato in economia che aveva segnato sia l’impostazione nazionalsocialista che, poi, inevitabilmente, l’economia di guerra, nega la possibilità di interventi pubblici e regola in modo rigoroso il principio di concorrenza come fondamento dell’economia sociale di mercato.
Questa impostazione si è poi depositata nei Trattati di Maastricht e ha disciplinato in maniera fin troppo certosina la regolazione di contrasto alla pratica degli aiuti di Stato, assegnando nella Commissione di Bruxelles anche una delega per istituire il guardiano della concorrenza.
Il passaggio d’epoca consiste esattamente in quello che Lucrezia Reichlin ha definito come nuovo corso keynesiano della cancelliera Angela Merkel, sia nella strategia di aiuti diretti a fondo perduto sia nel rapporto con alcune imprese strategiche. Il caso di Lufthansa, a questo riguardo, è esemplare. L’ ingresso dello Stato a sostegno della compagnia di bandiera fino al 25% si presenta come un inedito assoluto. Ha già innescato il ricorso del concorrente privato più significativo di Lufthansa, RyanAir di fronte alla Corte europea.
Ma in sede di Commissione Vestager è bersagliata da oppositori i quali ritengono che, a crisi superata, potrebbe permettere alla compagnia teutonica di acquistare a prezzi di saldo tutte le concorrenti europee, da Air France a KLM.
Qui si sta, quindi, profilando un cortocircuito tra i principi di regolazione del rapporto tra politica ed economia di mercato incorporato dalle istituzioni europee e una dinamica di salvataggio delle imprese che i singoli Paesi ritengono essenziali per la difesa degli interessi nazionali.
La costruzione di ‘campioni europei’
Angela Merkel non ha fatto mistero, infatti, di considerare l’ingresso del capitale pubblico in imprese importantissime come una norma contro la loro scalabilità da parte cinese. Il cortocircuito, che presto si verificherà su molti fronti, pone la questione di come costruire dei “campioni europei” che, da un lato, sul fronte globale possano combattere ad armi pari con i giganti Usa e Cina, e dall’altro, rispettino l’ordoliberismo della legge concorrenziale di mercato che è inscritta nelle Tavole dei Trattati.
Fino a prima del Covid la intensità della pressione competitiva globale consentiva ancora ai singoli Stati europei di sostenere i propri campioni nazionali in questa lotta globale. Ma ora che il duopolio dei capitalisti politici USA e Cina avanza e allarga il suo perimetro, potrà l’Europa evitare di costruire un suo paradigma di capitalismo politico?
I padroni degli algoritmi, nuovi soggetti della governance globale
Questa nuova configurazione della globalizzazione è particolarmente acuita dal fatto che a spostare il baricentro della competizione verso l’alto siano i padroni degli algoritmi, ovvero quei soggetti che governano i processi di integrazione tra economia delle reti ed economia dell’informazione. Chi detiene queste innovazioni può volgere a proprio vantaggio il processo distruttivo di attività economiche che ne discende.
I padroni degli algoritmi abitano proprio in USA e Cina e, con buona pace di Mariana Mazzucato, non sono generati da investimenti dello stato innovatore in assenza di libera iniziativa d’impresa, ma sono causa ed effetto proprio dell’economia d’impresa alleata con i mercati finanziari e le nuove frontiere della tecnologia. Non è un caso che, in Francia, Amazon e lo stato sono allo scontro frontale.
I processi di convergenza statali, coordinati a livello europeo e allineati alle scelte del WTO, per centrare sul principio della libera concorrenza il funzionamento dei mercati mondiali deve fare i conti con questi padroni degli algoritmi, che, sorvolando le frontiere, si legittimano come nuovi soggetti della governance globale, in barba a dazi e fiscalità.
Un nuovo rapporto “costituzionale” tra politica e mercato
Se accogliamo la tesi che, a scala europea, in rapporto alle nuove dinamiche conflittuali innescate dal duopolio, a sua volta conflittuale, dei capitalisti politici ci sia la necessità di organizzare un nuovo rapporto “costituzionale” tra politica e mercato, è inevitabile cercare di capire quale posizione occupano gli stati nazionali, con il loro carico storico – identitario e le forme ancora “autarchiche” con cui hanno regolato al proprio interno quei rapporti.
Molto è il disordine sotto il cielo e, certamente, né gli epigoni di Keynes né quelli di von Hayek possono presumere di disporre di ricette autosufficienti. Questo problema, che mette al centro i rapporti di forza su scala planetaria, inesorabilmente scompone e rimescola gli schieramenti dottrinari.
Come si pone l’Italia in questo quadro? Da noi sussiste una distorsione di fondo, dovuta al fatto che l’ “aggancio” con l’ordoliberismo di Maastricht a partire dal 1992 è avvenuto in un momento assolutamente unico nel panorama europeo, ovvero, nella decapitazione della direzione politica dello stato, con Tangentopoli che fa saltare i due partiti di governo fondamentali, DC e PSI.
In Italia, lo Stato ha cercato di respingere la modernizzazione
Ma, contrariamente a quello che si potrebbe pensare, lo stato privo del governo politico, se da un lato, con le privatizzazione si è allineato alle prescrizioni ordoliberiste di Bruxelles (e Francoforte), dall’altro, con il crescere dell’interdipendenza tra il 1992 e il 2008, accentua il suo intervento per anestetizzare gli effetti della globalizzazione, cercando tutte le leve fiscali, burocratico – amministrative, indebitamento per arginare l’espansione delle logiche di mercato nel funzionamento del nostro sistema economico e sociale.
Il Paese si è trovato in una condizione di potenziale schizofrenia. In alcune aree del Nord, soprattutto, ma non solo[1], l’ingresso nella globalizzazione ha generato un dinamismo economico impressionante, basato sulle piccole e medie imprese dei distretti industriali che si sono riorganizzate in modernissime piattaforme plurisettoriali ad alta produttività, con crescita occupazionale e dotazioni di competenze che hanno corrisposto al nuovo quadro competitivo. Il saper fare si è rapidamente sposato con l’economia della conoscenza a base metropolitana.
Ma sappiamo che il perimetro socio-economico che si è intrecciato alla globalizzazione, il “grande Nord” con proiezioni sull’asse Bologna-Firenze e verso l’Adriatico è minoritario nel bilancio socio-demografico nazionale. L’osservato speciale, in questo passaggio, è proprio lo stato.
Un osservato speciale, che respinge in modo scomposto e potenzialmente schizofrenico, un processo di modernizzazione, si badi, finalizzata al mantenimento di un’autonomia nazionale dentro l’interdipendenza europea; e lo respinge per rincorrere i consensi “democratici” maggioritari che provenivano dalle molteplici richieste di protezione delle rendite. Questa, che in ogni caso è una scelta che presenta forti tratti di continuità, ha tutt’ora ipoteche di formidabile arretratezza re-azionaria nell’impianto complessivo della statualità italiana.
L’arretratezza dell’impianto statuale italiano
Durante l’emergenza COVID se ne sono visti alcuni aspetti clamorosi, che sono il portato di una tradizione ormai almeno trentennale. Citiamo solo i più aberranti.
– La fiscalità come variabile indipendente dall’andamento dell’economia reale: alla paralisi delle entrate delle imprese non si è verificato nessun assestamento proporzionale del fisco, si sono dovute rinviare le scadenze, innescando un processo, pericolosissimo, di indebitamento per pagare imposte su una ricchezza mancata. Ma attenzione, la macchina fiscale dello stato è ormai estremamente efficiente nell’attività di prelievo, ma rimane lentissima dal lato delle restituzioni, compensazioni, ecc…
– La complicazione normativa: provvedimenti normativi elefantiaci generati in piena continuità burocratica dai ministeri e inefficaci fino ad approvazione di una sterminata congerie di decreti attuativi.
– L’incapacità di spendere: oltre all’inescusabile ritardo dell’INPS per le casse integrazioni e il florilegio di bonus attivati, che, sia detto en passant, in Germania, USA e altri Paesi anche “latini” spesso sono arrivati in meno di 48 ore, si profila all’orizzonte la tesi di chi dice che non possiamo accettare il MES o il Recovery Found perché non siamo in grado di destinarli a progetti realizzabili.
Il teatro di orrori potrebbe animarsi di un repertorio infinito di esempi ma bisogna cogliere l’elemento essenziale che mina lo stato italiano alla radice: dopo il 1992 non si è collocato il baricentro del governo politico a servizio delle componenti dinamiche e innovative della società e dell’economia italiane, attraverso riforme che incidessero sulla natura “agente” e “servente” delle istituzioni rispetto a obiettivi di sviluppo.
L’idea federalista, oltre il concetto di sovranità
Se è lecito un piccolo intermezzo, c’è un luogo teorico emblematico in cui questo radicale rifiuto è tangibile. Tra i pochissimi anni che separano la Caduta del Muro di Berlino e i Trattati di Maastricht Gianfranco Miglio accentua i tratti caratterizzanti del suo concetto di “sintesi politica” elaborando in modo sempre più circostanziato il suo federalismo.
La ragione di ciò risiede nel fatto che lo studioso lombardo, accogliendo un’istanza profondamente realista della sua impostazione, constata la crescita imponente dei rapporti sociali di mercato, delle libertà civiche locali e dell’identità politica dei territori del Nord contro la concentrazione, o cristallizzazione, dei rapporti politici nella macchina centralizzata dello stato.
Sviluppo delle attività d’impresa nelle forme comunitarie dei distretti industriali, libertà civili come concreto referente delle istituzioni locali, organizzazione di una statualità diffusa dolce a servizio dei bisogni sociali, sanitari, scolastici e degli interessi economici dei territori e della forma di urbanizzazione specifica del Nord a “città anseatica”, sono i capisaldi di un’idea federalista sempre ferocemente avversata a destra e a sinistra.
E’ una statualità che presenta testimonianze diffuse di responsabilità, di abnegazione, di competenza di cui abbiamo visto espressione estrema nei giorni del Covid nelle strutture sanitarie, nella protezione civile, nella riorganizzazione da remoto delle scuole. Non è una statualità del “comando sovrano”, ma al contrario, del servizio di scopo.
Questi processi reali dell’economia e della società italiane, che sviluppano una domanda di “sintesi politica” dai territori è talmente rilevante nella ridefinizione federalista del pensiero di Miglio da incidere al cuore della dottrina del suo maestro, Carl Schmitt. Ciò che in quest’ultimo è inestricabilmente unificato, il principio amico-nemico come fondamento conflittuale della politica con il concetto di sovranità, in cui il decisore politico si erge sopra le forme giuridiche del potere legale, per Miglio va radicalmente scisso.
Il politico è conflitto, pluralità di soggetti economici e sociali che non cristallizzano nella sovranità i loro rapporti, ma li iscrivono in patti di affidamento reciproco con tempi, modi e forme determinati in modo assolutamente rispettoso delle rispettive autonomie.
Le istituzioni leggere del federalismo dovrebbero essere ‘agenzie di scopo’
Ma la straordinaria capacità di innovazione di Miglio di andare oltre Schmitt, smontando completamente la macchina del potere sovrano, di disegnare un politico più aderente al confronto con una nuova dinamica socio-economica, in un mondo caratterizzato dalla pace, congegnando, con il federalismo, istituzioni leggere, agili, quasi delle “agenzie di scopo” come le definisce Giuseppe De Rita[2], ha una recezione quantomeno sorprendente nel contesto culturale italiano.
Invece di valorizzare l’innovazione di Miglio e la aderenza del suo antisovranismo al cambiamento epocale dell’Europa, imbarazza la lettura fattane da studiosi di ortodossa osservanza schmittiana: “Schmitt (che Miglio introduce in Italia, ma di cui dà un’interpretazione ‘politologica’ assai personale e molto laudativa, ma in fondo riduttiva)”[3]. Se qualcosa si può imputare a Miglio è una lettura politologica attenta alle trasformazioni sovranazionali e della società e dell’economia che sovvertono completamente il quadro storico della riflessione di Schmitt.
La conservazione dura e pura dello Stato nel paese della rendita
Ma questa deriva ha al suo interno un tarlo che dalla padella sovranista ci fa cadere nella brace del vetero statalismo. Il retro pensiero di tanti, intellettuali e non, si sono trovati a combattere una “indimenticabile battaglia” per la conservazione dura e pura di questo stato nella sua indomita inefficienza rivolta a sabotare i diabolici mercati globali: “I mercati ci chiedono l’involuzione autocratica perché i nostri governi abdichino al loro ruolo di governo”[4].
Posizioni di questo tipo spiegano perché in Italia la burocrazia anti impresa e anti libera iniziativa, una fiscalità che carica scriteriatamente oneri sul lavoro, una giustizia civile ed economica allo sfacelo non siano frutto di disgrazie naturali o di imperscrutabili scherzi del destino.
Sono, invece, volute e difese con consapevole ferocia dal Paese della rendita, che Luca Ricolfi ha minuziosamente dipinto nel suo La società signorile di massa. Non si spiegherebbe altrimenti il mistero per cui le forze politiche sovraniste non si sono mai sognate di intervenire negli ambiti in cui siamo ancora sovrani rispetto all’Europa: il fisco, la semplificazione burocratica, l’efficienza della giustizia, la scuola. Al punto che siamo ad invocare l’applicazione delle direttive europee, azzerando il monstruum l’inapplicabile Codice degli Appalti.
Gli Stati Generali della cultura ‘sovranista’
Gli Stati Generali, visti in simmetrica divergenza con il cosiddetto Rapporto Colao, hanno fotografato in modo fedele la situazione in cui si trova il nostro Paese: avere un disperato bisogno di più mercato, più impresa e più investimenti soprattutto per realizzare infrastrutture di interesse generale, ma disponendo di una classe politica, e non solo, espressione della cultura “sovranista” che ha esercitato la sua formidabile resistenza a trasformare l’inossidabile inefficienza “democratica” dello stato.
Ma, il Covid ha cambiato la natura del conflitto amico-nemico in questo Paese, e lo ha reso esistenziale, drammaticamente esistenziale. La società signorile di massa sta riducendo, giorno dopo giorno, le sue rendite di posizione come pure il consenso “democratico” all’inefficienza programmata dello stato. Ciò che gli Stati Generali non sono riusciti a dire è che lo stato di cui abbiamo bisogno, è proprio quello che riesce ad ibridare una società di mercato alla von Hayek con uno stato che sia una rete di istituzioni diffuse, non sovrane, ma realizzative delle infrastrutture di interesse comune, a servizio dell’economia che crea valore, non della rendita che lo consuma.
[1] Un repertorio formidabile di rappresentazione di questa Italia è nei microcosmi raccontati da Aldo Bonomi su “Il Sole 24Ore”.
[2] Giuseppe DE RITA: “Verticalizzazione dei poteri” in Il mondo che verrà. Interpretare e orientare lo sviluppo dopo la crisi sanitaria globale, introduzione di Tiziano TREU, I Quaderni del CNEL, Numero speciale, Maggio 2020, pag. 65.
[3] Così Carlo GALLI: “Il pensiero di Gianfranco Miglio” in Damiano PALANO (a cura di): La politica pura. Il laboratorio di Gianfranco Miglio, Vita e Pensiero, Milano, 2019, pag. 121. Fortunatamente ci sono importanti eccezioni a partire dall’elaborazione di Giuseppe Duso.
[4] Luigi Ferrajoli: “Un monocameralismo imperfetto per una perfetta autocrazia”, libertaegiustizia.it, 25 giugno 2016, una perla giustamente raccolta da Raffaele Alberto VENTURA: La guerra di tutti. Populismo, terrore e crisi della società liberale, Minimum Fax, Roma, 2019, pag. 55. L’indimenticabile battaglia naturalmente è quella per il no al Referendum Costituzionale del 3 Dicembre 2016.
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