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Opacità, isolazionismo, pandemia. La Cina è di nuovo una minaccia per il mondo

di Vittorio Ferla

 

Test di coronavirus obbligatori per tutti i viaggiatori in arrivo dalla Cina: questa la strategia del ministro della salute Orazio Schillaci per proteggere la popolazione, dopo che Pechino ha ‘riaperto’ il paese dopo tre anni di lockdown. Secondo Schillaci, i test, compresi i tamponi antigenici e il sequenziamento del virus, sono essenziali per garantire la sorveglianza e l’identificazione di eventuali varianti di Covid-19. I risultati dei primi test svolti all’aeroporto di Malpensa danno ragione al governo italiano: almeno un viaggiatore su due in arrivo direttamente dalla Cina risulta positivo. Ciò dimostra che l’inversione di marcia del gigante asiatico, con la revoca delle politiche Zero-Covid, sta facendo esplodere il più grande focolaio di infezioni dall’inizio della pandemia. Non stupisce dunque l’immediata reazione dell’Italia, il primo paese occidentale travolto dalla crisi sanitaria a cavallo tra il 2019 e il 2020. Così, mentre altri paesi – Stati Uniti, Giappone, India e Malesia – seguono le orme dell’Italia, ritorna la domanda sul ruolo nefasto di Pechino nella diffusione della pandemia a livello globale.

I fatti sono noti. Quando, alla fine del 2019, il medico Li Wenliang avverte l’opinione pubblica dell’esistenza del virus viene immediatamente punito e ridotto al silenzio dal governo cinese, che lo scagiona post-mortem quando ormai era troppo tardi. Man mano che il virus si diffonde a Wuhan, il regime continua a punire i medici in prima linea nella denuncia contro la malattia piuttosto che ammettere il problema e condividere le informazioni con l’intera comunità internazionale. Ancora oggi non siamo in grado di sapere quando e dove il virus sia apparso precisamente. Ma la cosa più importante è che, se Pechino avesse lanciato l’allarme per tempo invece di nascondere l’emersione del problema, l’Occidente (e l’Italia prima di tutti) avrebbe potuto fronteggiare tempestivamente (e forse evitare) la catastrofe sanitaria che ha bloccato la vita delle persone e l’economia degli stati per almeno un biennio. Ma la Cina è un regime dittatoriale: è del tutto normale che i funzionari del partito comunista mentano o nascondano non solo i focolai di malattie come la Sars e il Covid-19, ma anche gli incidenti sul lavoro, le calamità naturali (nel 2005 una contaminazione chimica ha interrotto le forniture d’acqua a milioni di persone nel nord-est della Cina: successivamente le vendite di latte contaminato hanno fatto ammalare migliaia di bambini) e le frodi finanziarie. Viceversa, chi diffonde informazioni senza l’autorizzazione del potere pubblico, siano essi semplici cittadini o giornalisti indipendenti, viene punito. Il controllo sui media e sulla rete da parte del governo per soffocare le voci dissenzienti è una pratica normale e consolidata. Non a caso la Cina è il paese con il più diffuso e profondo sistema di videosorveglianza sul pianeta. Forte di questo sistema di controllo, fin dall’inizio della pandemia Xi Jinping decide di adottare la strategia di lockdown molto severi, costringendo la popolazione a restare chiusa in casa per lunghi periodi di quarantena.

La strategia Zero-Covid è stata vantata da Xi come un’esperienza di successo. Quest’anno, però, con la diffusione della vaccinazione nei paesi occidentali e la conseguente riapertura delle attività economiche, il sistema cinese delle restrizioni è diventato una intollerabile camicia di forza per la società e l’economia cinese. A Pechino e nelle grandi città, per fare qualsiasi cosa, anche rientrare a casa propria, le persone avevano bisogno di un codice verde sull’app sanitaria della città. Così, per evitare di essere confinati in un hotel o di scomparire in un campo di quarantena, i cinesi hanno smesso di svolgere tutte quelle attività per le quali era previsto lo sta bene dell’app. Nel frattempo, il governo cinese ha continuato a nascondere le informazioni sulla pandemia. Il bilancio ufficiale di Pechino calcola poco più di 5 mila decessi da Covid, un numero evidentemente ridicolo, specie se rapportato alle dimensioni del paese. Negli ultimi mesi, è successo qualcosa che ha spinto il capo del governo cinese a cambiare idea. In primo luogo, proprio a causa delle chiusure, la forte crisi economica colpisce la Cina così come i paesi occidentali. In secondo luogo, la popolazione esausta dopo tre anni di costrizioni comincia a protestare in modo sempre più veemente. Questi eventi mettono in difficoltà perfino il ferreo dispotismo del partito comunista cinese. Preoccupato per il rallentamento dell’economia del paese e per il costo dell’apparato di test svolti quotidianamente su tutta la popolazione, alla fine di novembre il governo comincia ad allentare i requisiti per i test. Ma senza test, Zero-Covid non funziona più. Omicron si diffonde così nei complessi residenziali a Pechino e in tutto il paese. Le autorità reagiscono di nuovo con i lockdown, ma stavolta i residenti resistono ferocemente. Di nuovo, sappiamo molto poco delle dimensioni delle proteste. Ma è certo che stavolta il partito non riesce a ingabbiare milioni di comuni cittadini pronti a disobbedire ai blocchi. All’inizio di dicembre, Xi deve accettare la fine dei lockdown. Purtroppo, però, chiusa nel suo isolazionismo nazionalista e antioccidentale, la Cina non ha utilizzato il tempo guadagnato con i lockdown per importare vaccini più efficaci di produzione occidentale. In pratica, il paese non dispone di farmaci per curare la malattia e almeno un terzo delle persone sopra i 60 anni non è completamente vaccinato. Inoltre, i vaccini di fabbricazione cinese, gli unici disponibili nel paese, hanno tassi di efficacia molto modesti rispetto a quelli occidentali. Secondo alcune fonti internazionali, pertanto, il bilancio dei decessi provocati dalla riapertura della Cina potrebbe arrivare fino a 1 milione di persone. Secondo Bloomberg News e Financial Times, quasi 250 milioni di persone in Cina potrebbero aver contratto il Covid-19 nei primi 20 giorni di dicembre: in pratica 18 abitanti su cento (nel paese vivono 1,4 miliardi di persone). Sarebbe in sostanza il più grande focolaio di Covid-19 fino ad oggi a livello globale. Tutto questo accade proprio mentre Xi dichiara già vittoria sulla pandemia e assicura che il numero ufficiale delle vittime rimarrà ben al di sotto di quello dell’Occidente “moralmente decrepito”. Difficile immaginare che Pechino riesca a mantenere questa narrazione di fronte a una gigantesca epidemia. Di sicuro, la reputazione del governo cinese è segnata: ancora una volta, la mancanza di trasparenza, l’isolazionismo e l’assenza di collaborazione con gli altri paesi rischiano di scatenare una nuova crisi sanitaria. Viceversa, il sistema delle democrazie occidentali mostra ancora una volta di funzionare molto meglio dei regimi dispotici.

La Cina ha abbandonato la sua politica “zero-Covid” all’inizio di dicembre, spingendo l’Organizzazione mondiale della sanità ad avvertire mercoledì che il mondo dovrebbe essere preoccupato per un’ondata di infezioni in accelerazione

“Zero Covid” era diventato insostenibile, vista la contagiosità della variante Omicron, oltre alle proteste di fine novembre che hanno dimostrato una crescente rabbia per le rigide misure di mitigazione

I modellisti di malattie in Australia pensano che il bilancio delle vittime della riapertura della Cina potrebbe arrivare fino a 1 milione di persone poiché la Cina non dispone di farmaci per curare la malattia e almeno un terzo delle persone sopra i 60 anni non è completamente vaccinato. Anche i vaccini di fabbricazione cinese, gli unici disponibili nel paese, hanno tassi di efficacia inferiori rispetto alle iniezioni di mRNA

Yanzhong Huang, un esperto di Cina e senior fellow per la salute globale presso il Council on Foreign Relations, ha parlato con Carmen del motivo per cui il governo cinese non è meglio preparato dopo tre anni di pandemia iniziata all’interno dei suoi confini

Considerato il vigore con cui il governo cinese ha perseguito “zero Covid”, richiedendo test e quarantena, perché non ha imposto la vaccinazione?

Gli anziani sono stati tutelati dalla politica “zero-Covid”. Ha ridotto l’incentivo a prendere il vaccino

Per i governi locali, i test PCR di massa e i blocchi improvvisi erano modi più efficaci per eliminare quelle riacutizzazioni locali rispetto alla vaccinazione, che richiede tempo per avere effetto

I vaccini di fabbricazione cinese non includevano persone di età pari o superiore a 60 anni quando stavano iniziando la sperimentazione clinica di Fase III. Quindi, ancora oggi, alcune persone pensano che questo vaccino potrebbe non essere così sicuro per loro

Ora il virus si sta diffondendo velocemente. Penso che il governo sia così sopraffatto da questa richiesta di assistenza sanitaria, ricoveri. È stato difficile per loro dare la priorità alla vaccinazione

Perché la Cina non utilizza vaccini prodotti all’estero?

Hanno importato 100 milioni di dosi di vaccini a mRNA, ma il governo ha rifiutato di autorizzare o approvare l’uso dei vaccini

Per alcune persone, questo è un esempio di nazionalismo tecnologico. Vogliono prima approvare i propri vaccini a mRNA fatti in casa

Dopo la visita del cancelliere tedesco a novembre, hanno permesso agli stranieri di ottenere vaccini a mRNA

Le proteste hanno fatto prendere dal panico il governo?

La storia interna di quanto accaduto nel paio di giorni tra la contestazione studentesca e la decisione di allontanarsi dal “Covid zero” resta taciuta

Sospetto che non scopriremo mai cosa è successo, ma chiaramente, a mio avviso, la protesta studentesca è un innesco del processo di riapertura anche se ci sono stati altri fattori che hanno portato a questa decisione

Non c’era preparazione. Non c’è una tabella di marcia

Prima della riapertura, avrebbero potuto adottare alcune misure per preparare gli operatori sanitari, per fare un po’ di comunicazione del rischio con il pubblico, preparare una scorta di farmaci antifebbrili

La Cina ha approvato l’uso del Paxlovid già nella primavera di quest’anno, ma non importa molto

Potrebbe avere qualcosa a che fare con l’orgoglio nazionale

Vittorio Ferla
vittorinoferla@gmail.com

Giornalista, direttore di Libertà Eguale e della Fondazione PER. Collaboratore de ‘Linkiesta’ e de 'Il Riformista', si è occupato di comunicazione e media relations presso l’Ufficio di Presidenza del Consiglio regionale del Lazio. Direttore responsabile di Labsus, è stato componente della Direzione nazionale di Cittadinanzattiva dal 2000 al 2016 e, precedentemente, vicepresidente nazionale della Fuci. Ha collaborato con Cristiano sociali news, L’Unità, Il Sole 24 Ore, Europa, Critica Liberale e Democratica. Ha curato il volume “Riformisti. L’Italia che cambia e la nuova sovranità dell’Europa” (Rubbettino 2018).

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