
17 Feb Perón o De Gasperi. Il gene cattolico del populismo italiano.
di Loris Zanatta
L’Italia gronda populismo e il populismo italiano è perlopiù cattolico. Populismo dei cattolici da un lato, di una parte dei cattolici militanti e praticanti. Populismo di cultura cattolica dall’altro, di gruppi e individui che cattolici non sono o non si professano. Il primo è denso e strutturato, un vino corposo che piace al mondo politico e mediatico. Il secondo è leggero e gassoso, un vino novello diffuso un po’ ovunque. Uno spopola in tivù e fatica nelle cabine elettorali, predilige il PD, ma si spalma su Cinquestelle e schegge affini. L’altro va ad istinto e l’istinto lo porta ovunque, fino agli antipodi meloniani. Capace che il viaggio dai salotti alle osterie, dai sommelier ai bevitori occasionali sia più breve di quanto appaia.
Ma come? Se i cattolici non hanno nemmeno un partito! Se l’Europa è scristianizzata! Cominciamo col partito: il mondo è colmo di paesi cattolici senza partiti cattolici. L’America Latina, il più cattolico dei continenti, ne ha avuti pochissimi. Ma ha avuto e ancora ha immensa influenza ecclesiastica. Quei pochi hanno attecchito nei rari paesi di tradizione liberaldemocratica. Non a caso: riunendosi in partito, i cattolici ammettevano d’essere parte e non tutto, che la politica non era un prolungamento della fede. Gli altri? I paesi che non ne hanno avuti? In balia dei populismi cattolici: cattolica la cultura, cattolica la patria, cattolico il popolo. Il fine? Tradurre la fede in ordine politico, un ordine cattolico.
A sua modo vale anche per l’Italia. Il partito cattolico implicava partiti non cattolici, l’autonomia di fede e politica, la legittimità di un paese plurale. E il pluralismo produceva riformismo, figlio della salutare tensione tra Atene e Gerusalemme, dubbi e certezze, scienza e fede, aspirazioni e possibilità. Ma oggi? Sparito il partito cattolico, cadute le fedi secolari, cattolici sono tutti, seppur ognuno a suo modo. Chi non lo è? Da Landini a Salvini, da Conte a Meloni, da D’Alema a Sant’Egidio, tutti in cerca di legittimazione religiosa, tutti a caccia di benedizione pontificia. L’Italia laica? Scomparsa. Il riformismo? Con lei. Come in America Latina, Gerusalemme scalza Atene. Ma la politica che ad Atene è dialettica a Gerusalemme è guerra di religione, l’antitesi del riformismo: perciò la polarizzazione politica, perciò la polarizzazione ecclesiastica, botte da orbi. Tutti in guerra contro tutti, tutti monopolisti del bene in guerra contro il male, tutti paladini della giustizia sociale e della famiglia, della pace e dell’ambiente, poche idee ma tanta fede, tanta indignazione ma poche soluzioni. Nostalgia di un partito cattolico? Figuriamoci, sono un laico radicale. Basterebbe un sussulto di laicità, più etica della responsabilità meno etica della convinzione.
Poi c’è l’Europa “scristianizzata”. Il lamento risuona ovunque. E’ così marcia di peccato, cinica e consumista, individualista ed egoista, mi scrisse un lettore, da giustificare ogni fanatismo per distruggerla. Delenda Sodoma. Il fondamentalismo non è solo islamista. Quanti orfani delle radici cattoliche, quanti nostalgici dell’“identità” cristiana, quanti aspiranti restauratori dell’una e delle altre! Cosa implichi non è detto, come farlo non è chiaro. Che richieda altre guerre religiose? Ma quel che tanti chiamano scristianizzazione è in realtà secolarizzazione, un unicum europeo, garanzia del fragile equilibrio tra Atene e Gerusalemme, premessa d’ogni riformismo, tomba d’ogni populismo. Dovremmo andarne fieri. A meno di non rimpiangere la fusione di nazione e religione, popolo e cultura, cittadino e fedele, fusione che dissemina odio politico e violenza religiosa dalla Russia all’India, dalla Siria alla Cina, dal Nicaragua alla Turchia. Se veniamo da decenni di democrazia e benessere, tolleranza e stabilità, è perché viviamo un’età secolare.
L’origine religiosa dei fenomeni populisti
-Che il populismo italiano sia in gran parte cattolico non sorprende. L’origine religiosa dei fenomeni populisti d’ogni tempo e luogo è una costante, mille volte notata dalle scienze sociali. Cattolico è anche il populismo latinoamericano, protestante quello dei paesi protestanti, islamico quello dei paesi musulmani, ortodosso quello russo, buddhista quello indiano e via di seguito. Il popolo dei populismi è sempre un popolo religioso, il suo nemico è sempre secolare e cosmopolita. Cos’è, infatti, il populismo? E’ una nostalgia di purezza, innocenza, unità. C’era una volta un popolo puro, recita la parabola, il popolo delle origini, una comunità di fede egualitaria e solidale, un organismo vivente armonico e senza peccato. Niente individualismo, niente egoismo, niente materialismo: il giardino dell’Eden. Ma ecco il popolo puro corrompersi: la storia è degenerazione, la vita peccato, la politica conflitto. Ecco il razionalismo separare cuore e mente, l’illuminismo fede e scienza, il liberalismo Dio e popolo, il capitalismo economia e teologia, la tecnica lavoro e natura. La modernità corrompe, contamina, contagia. Dunque? Cosa vuole il populismo? La Città di Dio, l’armonia delle origini, la purezza perduta, l’identità smarrita. Ora invocando il piano di Dio ora le leggi della storia, aspira a ricucire ciò che la storia e la tecnica, la cultura e l’economia, la scienza e la filosofia hanno spezzato, a ricreare l’armonia delle origini. Annuncia l’apocalissi e promette la redenzione, la liberazione del popolo puro e il castigo dell’élite corrotta. In preda a furia escatologica, sprigiona la potenza messianica dei miti religiosi. Da ciò la sua forza, in ciò la sua incompatibilità col riformismo.
Il riformista è allergico a escatologie e messianismi. Cercando di correggere errori dà per scontato che la correzione richiederà correzioni, che la storia proceda a tentoni senza seguire leggi né piani. Sa che nessuno ha il monopolio del bene, che la storia abbonda di buoni propositi dai nefasti effetti, che non basta fare il bene ma bisogna farlo bene se non si vuole che causi del male. Il populista la fa più semplice: il suo popolo è il popolo eletto, è moralmente superiore, è l’unico vero popolo, la parte assurta a tutto. In suo nome invoca condanne, esige espiazioni, addita terre promesse. “Questo mondo è sulla china del suicidio”, profetizza il Papa, bisogna “cercare soluzioni integrali”, insegna, “ripensare la totalità dei processi”. Tabula rasa. Proposte? Un percorso “più creativo e meglio orientato”. Boh. Le “vie di mezzo”? Il riformismo? “Un piccolo ritardo nel disastro”.
Se la storia è corruzione della purezza originaria, l’ideale populista sarà frenare il mutamento: fare un “passo indietro”, spiega Francesco. Combattere la ricchezza è più morale che produrla, fermare l’innovazione meglio che incentivarla, distribuire più umano che crescere, scambiare più etico che commerciare. L’utopia populista è il passato, il passato è lo scrigno delle virtù: no a questo e no a quello, questo fa male quello fa peggio, termovalorizzatori e rigassificatori, piattaforme marine e infrastrutture moderne. Invenzione, creatività, sfida, rischio, problem solving: macché. Mica per caso le rivoluzioni moderne non sono nate nel mondo cattolico. Né la scientifica, né l’industriale, né la costituzionale. Meno male: da duecento anni in qua, recita la Laudato Sì, hanno causato “il deterioramento della qualità della vita di gran parte dell’umanità”. Un’enormità.
Quand’anche tutto ciò suoni astratto, c’entra assai col gene cattolico del populismo italiano. La sua storia ne è testimone. Il cattolicesimo, si sa, fu il primo, più potente e furente nemico della “modernità liberale”. Che crociate! Era figlia dell’eresia protestante, della borghesia senza Dio, nemica del popolo fedele. Le oppose a lungo “l’ordine cristiano”, la comunità di fede. Al tempo non s’usava il termine “populista”, ma quello era. Man mano annacquò tuttavia il suo vino: perché la democrazia non era poi così impopolare, il capitalismo non proprio così deleterio, i cattolici non sempre così ostili alle nuove idee. Nemmeno l’illuminismo era in fondo tutto da buttare: le libertà dei moderni erano figlie sue! E perché, infine, la nostalgia populista aveva figliato il fascismo, una religione politica, finito com’era finito. Per quanto dura a digerirsi, la modernità cacciata dalla porta rientrò così prepotente dalla finestra: tra cattolicesimo e liberalismo scoccò la scintilla prima soppressa, si creò un virtuoso minuetto, il monismo s’aprì al pluralismo, il popolo alla persona, la Chiesa alla democrazia, Gerusalemme ad Atene.
Un ultimo, poderoso impulso spinse infine nel dopoguerra il cattolicesimo italiano a smettere le vesti populiste e indossare quelle democratiche: la nuova nostalgia populista, il nuovo universalismo antiliberale era il comunismo. Un’altra religione politica! Un’altra fede secolare gli aveva rubato l’escatologia, catturato l’utopia redentiva, minacciava di portargli via il popolo. Non vado in chiesa, diceva mio padre, operaio comunista: la mia chiesa è il PCI. Nuovo Messia, il santino di Lenin troneggiava sul comodino. Il comunismo era una eresia cristiana. Nemmeno tanto eretica: “sono i comunisti a essere cristiani”, non noi ad essere comunisti, precisa il Papa. Sarà mica un caso se il sogno comunista dilagò nei paesi cattolici mentre attecchiva appena in quelli protestanti. Qualcuno crede davvero che il popolo fosse d’un tratto diventato marxista? Non sarà che il marxismo nostrano, come la scarpa di Cenerentola, calzava secoli di cultura cattolica? La repulsione di inizio guerra fredda si tramutò così in dialogo, mano tesa, attrazione fatale: si credevano così diversi, si scoprirono così simili! La Pira non era meno antiamericano di Togliatti, Dossetti meno terzomondista di Pajetta, Balducci meno anticapitalista di Ingrao. E viceversa.
La caduta del Muro sciolse l’equivoco e tolse gli imbarazzi: le acque un tempo separate confluirono. Baci e abbracci. Dall’Ulivo al PD, l’albero piantato allora non smette di dare frutti. Ma che frutti sono? Della pianta liberaldemocratica o del vecchio albero populista? Non s’è mai capito, nessuno l’ha mai chiarito, metà e metà. Perciò le sigle si succedono alle sigle, i frammenti si staccano dai frammenti. Invece di schiarirle, il breve consenso liberale degli anni ’90 intorbidò le acque: tutti corsero sotto l’ombrello “liberale”, tutti rinnegano oggi quell’epoca “neoliberale”. Retromarcia. E pentimento. Quanti liberali antineoliberali! In Italia! Paese tra i più paternalisti e corporativi al mondo! Suona a gioco di parole, a opportunismo lessicale, a foglia di fico di un antiliberalismo atavico, religioso e culturale, antropologico e viscerale. Quella che per taluni fu una sincera conversione, un doloroso faccia a faccia con le tragedie della storia e i lamenti della coscienza, per altri fu ritirata tattica, mimesi d’occasione. Appena possibile, alla prima inversione del vento, le poetiche lenzuolate liberalizzatrici sono diventate vecchie trapunte statalizzatrici, i teneri amori atlantici vecchi rancori antioccidentali, i sospiri riformisti rancidi rigurgiti populisti.
Lo specchio dell’America Latina
L’America Latina aiuta ancora a capire: non c’è miglior specchio dove guardarsi, a noi più affine e per noi più impietoso. I suoi populismi, peronismo in primis, sono religioni della patria, fedi del popolo, Regni di Dio in terra. O così credono, pretendono, esigono. Niente riforma protestante, laggiù, niente pluralismo religioso, meno pluralismo politico. Ma tanta cristianità: un Re, un popolo, una fede, una comunità organica, un ordine olistico. Da un lato il popolo puro e la sua intrinseca moralità, dall’altro l’élite corrotta e la sua intrinseca immoralità, gli onesti e disonesti, i misericordiosi e gli spietati, i santi e i peccatori. Contro quel muro manicheo si schiantano le libertà individuali, la separazione dei poteri, il mercato delle idee e delle merci, strumenti con cui il demonio attenta all’unità e identità del popolo. Amen. Gli effetti? Stato etico, paternalismo, clientelismo, pauperismo, patrimonialismo. Si capisce che l’America Latina attragga tanto cattolici e comunisti. Che un tempo attraesse cattolici e fascisti. E’ il paradiso degli antiliberalismi, la fiera degli anticapitalismi, il laboratorio di populismi sacri o profani, divini o mondani, il cimitero dei socialismi democratici e dei cattolicesimi liberali, la fossa comune di tutti i riformismi. Ce n’è per tutti i gusti! Peronismo e chavismo, castrismo e sandinismo, teologi liberazionisti e filosofi indigenisti: escatologia pura, terre promesse a gogo, popoli sacri a volontà. Quanto amore per i poveri e quanto odio per i ricchi! Quanto pietismo e assistenzialismo, quanta ipocrisia e imprevidenza, quanta inflazione e povertà! L’America Latina è colma di cattolici e di poveri, dice il Papa. Un fatto? O un nesso?
In tale temperie culturale, parole come produttività, competitività, concorrenza, efficienza, merito sono spregevoli concessioni al Dio denaro, patologie da paradigma tecnocratico, tirannie della macroeconomia, peccati neoliberali. L’antidoto? “L’economia di Francesco”, spiegano fior di Nobel, illustrano decine di convegni, si scervellano centinaia d’economisti in cerca dell’Araba Fenice. Ma c’è già, ce l’abbiamo davanti al naso! L’Argentina peronista è una vetrina del trionfo della via populista su quella riformista, un caso unico al mondo di declino, da paese tra i più aperti e ricchi ad uno dei più chiusi e impoveriti. Perché una cultura che eleva il “povero” ad archetipo di purezza e tutti gli altri ad oligarchia corrotta dovrebbe estirpare la povertà? Infatti non l’elimina, la moltiplica: Stato immenso e improduttivo, mercato del lavoro ossificato, sindacati onnipotenti, prezzi amministrati e sovvenzionati, piani sociali a metà del paese, tasse atroci per l’altra metà, debito pubblico fuori controllo, inflazione quasi a tre cifre, fabbrica della povertà a pieno regime. Prosciugate le fonti della peccaminosa ricchezza, reciso l’immorale ethos borghese e capitalista, la modernità liberale è stata sconfitta. Il conto? Chi ha denaro lo mette in salvo all’estero, chi ha figli, se può, idem. Questo, alla lunga, ha prodotto il populismo cattolico, il primato dell’utopismo sul riformismo, del volontarismo sul realismo, dell’ideologia sul buon senso. Tale è stato l’approdo di decenni di disprezzo per lo spirito di impresa, l’iniziativa privata, lo sforzo individuale, di esaltazione dell’umiltà, la povertà, il conformismo, di celebrazione dell’eterna fanciullezza del popolo puro.
Per trent’anni ho confidato che l’esempio europeo facesse scuola in America Latina, che il cattolicesimo escatologico s’ibridasse con quello liberale, il socialismo rivoluzionario con quello democratico, che le smanie populiste si sgonfiassero in proposte riformiste. M’illudevo, non avevo capito niente, sta avvenendo l’opposto. L’Europa latina e cattolica, Italia in testa, s’intenerisce al canto di sirene del populismo latinoamericano, non capisce che sono sirene d’allarme per la libertà e la prosperità, la democrazia e la laicità. Come esso, i populismi nostrani sognano di dis-atlantizzarsi, aspirano a dis-occidentalizzarsi, combattono “il capitale” inalberando grandi e seducenti “ideali”. Cavalcano le tigri che già cavalcarono i loro padri, come essi faranno enormi danni prima di schiantarsi contro il muro della realtà. Così è la nostra epoca, epoca buia per i riformismi, tetra per i razionalismi, cupa per i pragmatismi. Le religioni riprendono ovunque le redini dell’universalismo antiliberale, le Chiese la guida della crociata contro il secolarismo, i figliol prodighi tornano all’ovile, i pentiti a Canossa: il popolo ha una cultura, la sua cultura è la fede, il popolo eletto è una comunità di fede. Ma addio secolarizzazione, addio riformismo.
Papa Francesco è la ciliegina sulla torta del populismo nostrano, ne incarna lo spirito, ne incoraggia le aspirazioni, ne giustifica le idiosincrasie. Chi più di lui ne avalla la vulgata antiliberale, la demagogia anticapitalista, i luoghi comuni terzomondisti, le sparate pauperiste? Chi sacralizza altrettanto il popolo? Non è populismo, dice, è popolarismo! Parola assente dal suo passato, in Italia evoca Luigi Sturzo e il cattolicesimo liberale, il più remoto dal pedigree bergogliano: che ci sia un suggeritore? Ma è un gioco di prestigio e il trucco si vede. A nascondere la parola non sparisce la sostanza. Cresciuto a pane e peronismo, Bergoglio inneggia ai movimenti “nazional popolari”, populisti a diciotto carati. Ha sempre combattuto la “modernità liberale”, detestato l’Europa secolare.
Il popolo all’Italiana
Ma l’Italia, si dirà, non è l’Argentina, l’Europa non è l’America Latina. Va da sé. I nostri populismi sono più raffinati, gli appelli al popolo più articolati, l’uso del povero meno spudorato, l’odio contro l’Occidente più edulcorato. Si capisce: il livello di sviluppo è più elevato, il capitale sociale più preparato, la secolarizzazione più radicata, le istituzioni liberali più consolidate. E poi c’è l’Unione Europea. Esenti dalla sua vigilanza, chi può giurare che non ci saremmo avviati lungo il piano inclinato su cui un tempo s’avviò l’Argentina, a colpi di debito pubblico, bolle inflazioniste, corporativismi sindacali, protezionismi commerciali? Che sia per questo che l’Europa irrita i populisti? Che l’additano a élite corrotta? Tant’è: un tempo usata con sobrietà e parsimonia onde evitare i fantasmi totalitari che a ragione evoca, la parola popolo risuona oggi ovunque. E il popolo cui allude non è il popolo costituzionale ma il popolo di Dio, non è il popolo politico che tutti include ma il popolo sacro dei populismi . Un popolo mitico, dice il Papa, opposto al popolo logico, morale il primo immorale l’altro, uno solidale l’altro egoista, uno patriottico l’altro globalizzato, il bene e il male.
Ma se l’archetipo del popolo mitico latinoamericano è il povero che la povertà preserva dalla corruzione, quello del popolo mitico italiano dovrà essere adeguato al nostro contesto. Chi è il nostro popolo puro? Dove coltiva la sua purezza? Come rivela la sua innocenza? Ambientalismo, pacifismo e immigrazione sono i bacini cui attinge il nostro populismo, le riserve di purezza morale impermeabili ai vizi della modernità. Perché combattere col progresso gli effetti negativi del progresso se al progresso si può rinunciare? Perché rassegnarsi alla “distruzione creativa” se si può decrescere in santa pace? Perché difendersi con le armi dalle invasioni se si può agitare il ramoscello d’ulivo? L’immigrato, in cerca di miglior vita e ascesa sociale, recita suo malgrado il ruolo del buon selvaggio, di custode del candore originario, di testimone della religiosità popolare, spontanea e comunitaria, innata e fraterna. E così, tra un melenso appello alla frugalità ed una frustata morale al consumismo, una battuta sprezzante sulle ragioni dell’economia e un’uscita demagogica sulla distribuzione di pani e pesci, il populismo cattolico celebra atavici luoghi comuni antimoderni, sfoggia compiaciuto la retorica pauperista. “La Chiesa è il popolo, il popolo è la Chiesa”, dice il Papa. “Per comprendere davvero il popolo bisogna andare in un paesino francese, italiano o americano. E’ lì che possiamo vivere la vita del popolo. Una categoria mitica”. Ritorno al passato, un passato cristiano.
Mutatis mutandi è un clima culturale da anni ’30, da restaurazione cristiana, da anni ’70, da crociata antiliberale. Come a voler emendare il peccato capitalista il populismo cattolico rinnega il mercato, come a voler espiare il peccato secolarista corteggia le autocrazie religiose, come a voler mondare il peccato liberale invoca il popolo. All’Occidente secolare oppone le periferie confessionali, all’Europa laica le devozioni popolari. Come il populismo latinoamericano combatte la modernità liberale, eterno nemico della cristianità, insegue la nostalgia olistica dell’armonia originaria. Contro la società aperta agita l’identità, contro la prosperità la santa povertà. A De Gasperi, avrebbe preferito Perón.
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