
02 Nov Popolarismo e liberalismo a 150 anni dalla nascita di Luigi Sturzo
di Flavio Felice
Il 2021 ricorre l’anniversario dei 150 anni dalla nascita di don Luigi Sturzo. Con il presente contributo vorrei mostrare in maniera sintetica e in forma puramente ipotetica, come la conoscenza dell’opera sturziana e la riflessione sul suo contributo alla cultura politica appaiano ancora non adeguatamente compiute, se non decisamente sottostimate, al punto da poter affermare con la storica Gabriella Fanello Marcucci: «Dall’esilio, Luigi Sturzo non è mai completamente tornato».
L’eclettismo di Sturzo, tra liberaldemocrazia e laburismo
Sulle ragioni per cui il contributo del sacerdote calatino alla teoria politica sia rimasto abbastanza in ombra, credo si debbano distinguere almeno tre ambiti: quello accademico, quello ecclesiale e quello politico. In ambito accademico, forse l’accademia italiana non ha mai perdonato a Sturzo il suo geniale eclettismo. Era un prete, un sociologo, un politologo e un politico, uno che aveva studiato all’estero e stimava il modello liberaldemocratico anglosassone, non era di sinistra, sebbene avesse riposto speranze nel primo laburismo britannico, e non disdegnava la polemica politica. C’erano tutti gli ingredienti per la damnatio memoriae di cui è rimasto vittima.
Inoltre, è probabile che Sturzo abbia scontato la diffidenza di un certo mondo laico e azionista, scettico nei confronti di un autore cattolico dichiaratamente anticomunista, ma, nel contempo, radicalmente antifascista. Per di più, assumendo come base della propria teoria sociale e politica la categoria plurarchica di popolo, in quanto insieme di persone e di nuclei sociali non gerarchicamente ordinati da un’autorità collettiva, piuttosto che quella di classe, è parso non funzionale al progetto rivoluzionario della sinistra comunista.
Anche sul versante degli intellettuali cattolici, se si escludono alcune lodevoli eccezioni, si riscontra un sostanziale disinteresse per il lavoro sturziano, a dimostrazione del fatto che una parte significativa dell’intellighenzia cattolica sembra abbia sottostimato l’importanza strategica della Repubblica delle lettere, cercando sponde nella cultura e nel mondo “progressista”, perché decisamente più funzionale di Sturzo al progetto politico che avrebbe dovuto condurre all’inesorabile incontro tra cattolici democratici e comunisti e la definitiva accettazione dei cattolici nella cittadella democratica, con il loro relativo ingresso nella modernità e la fuoriuscita dalla caverna del conservatorismo reazionario.
Il dialogo tra Chiesa e modernità (e l’ispirazione rosminiana)
In ambito ecclesiale, amareggiato per la stipula dei Patti Lateranense e, di conseguenza, a qualsiasi rapporto tra la Chiesa e il regime fascista, è probabile che Sturzo abbia pagato la sua sintonia con l’insegnamento della filosofia rosminiana. Come osserva il D’Addio, Sturzo rifiuta ogni forma di persecuzione e di condanna, tristemente praticate dal “neotomismo ufficiale”, ben rappresentato dall’opera di guardiano dell’ortodossia, svolto dalla “Civiltà Cattolica”, nei confronti della cultura e della società moderna. Secondo lo spirito rosminiano, bisognava operare per avviare un dialogo fra chiesa e modernità che consentisse anche il rinnovamento della cultura ecclesiale dominante e poter così rispondere alle urgenze dei tempi, in modo conforme alla prospettiva cristiana.
Contro il dirigismo economico
In ambito politico, al di là dell’apprezzamento di personalità di straordinario spessore, credenti e non, che hanno scritto la storia del paese e dell’Europa, agli occhi di buona parte della nuova classe politica italiana del Secondo Dopoguerra, Sturzo che si oppone all’apertura a sinistra, al dirigismo economico di stampo italo-keynesiano, fustigatore del malcostume e dei casi di corruzione che iniziavano a manifestarsi tra le classi dirigenti dei partiti, in combutta con una business community sempre più assistita dalla politica dei partiti e affrancata dal fastidio del rischio imprenditoriale, appare vecchio, passato e sconfitto dalla storia.
Sconfitto da una vicenda politica che, negli anni Venti, l’aveva visto soccombere sotto il peso della ragion di Stato e dover lasciare il paese per facilitare la realizzazione del concordato tra lo stato fascista e la Santa Sede; incompreso e, infine, sconfitto, sebbene sempre rispettato e onorato, al rientro dal lungo esilio, avendo ritrovato un’Italia e i suoi vecchi amici popolari non sempre coerenti con quegli ideali politici che lui non aveva mai smesso di testimoniare e che aveva riscontrato nella tradizione della liberaldemocrazia anglosassone.
Il personalismo come antidoto alle derive totalitarie
Talvolta si ha l’impressione che non sia stato colto in profondità un aspetto cruciale del suo pensiero che, in un certo senso, potrebbe essere considerato il suo imperativo metodologico: alla base della ricerca storica c’è sempre il concreto e nulla è più concreto della persona. La persona in carne e ossa, in spirito e volontà, libera e responsabile, nulla di più distante dall’individuo immaginato e progettato nei lager, nei campi di concentramento e di sterminio, luoghi pensati, per usare le parole della Arendt, come “laboratori” per la verifica del completo dominio di alcuni uomini su altri uomini.
Antidoto alla deriva totalitaria dell’olismo metodologico è il personalismo metodologico sturziano, secondo il quale la persona si realizza in istituzioni sempre più ampie e il partito politico non è altro che una di tali istituzioni, incapace di esprimere un punto di vista totalizzante. Nessuna istituzione, per quanto grande possa essere pensata e implementata, potrà mai esprimere una prospettiva universale, dunque, potrà mai essere ritenuta adeguata ad incarnare l’aspirazione e il desiderio d’infinito che albergano nella persona. Di qui, tutta la diffidenza di Sturzo, la critica, l’elaborazione teorica del popolarismo e l’opera demolitrice delle teorie politiche esplicitamente o implicitamente ispirate dal principio monistico, apripista di tutte le possibili derive totalitarie.
Contro il potere illimitato dello stato
Attore protagonista sulla scena politica della modernità è indubbiamente lo stato, la cui costituzione, fa notare opportunamente Sturzo, è piuttosto recente. Esso può significare sia “la società politica comunque organizzata”, sia “il tipo moderno di organizzazione della società politica”. Ebbene, qualora il potere statale fosse considerato un organo dello stato e, di conseguenza, la sua espressione manifestasse una dualità tra governanti e governati, allora tale potere non potrebbe che essere limitato, qualunque fosse la forma di governo e il grado di democrazia. Qualora, invece, considerassimo lo stato come centro di unificazione, forza centripeta verso il quale dovessero convergere gli interessi e i sentimenti della società politica, allora «il potere statale si considera dalla maggior parte dei moderni filosofi giuristi o politici, come illimitato», qualunque sia la forma di governo.
Alla base della posizione assunta da Sturzo sulla necessità di concepire lo stato non come una centro di unificazione, bensì come un organo della società, la forma politica che essa assume e che entra in competizione con altre forme sociali, abbiamo il rifiuto teorico del Nostro di concepire lo stato come una ipostasi, la personificazione e l’attribuzione dell’intelletto, della volontà e delle istanze spirituali ad una entità astratta; un soggetto fisico o iperfisico, “agente o reagente, con personalità propria”. Sebbene Sturzo riconosca che ogni forma di società esprima un “tentativo di unificazione dei singoli”, avendo come riferimento “fini e aspetti determinati”, le singole persone non perderanno mai la propria personalità a favore di «una personalità a sé, indipendente, dai singoli, come una super-coscienza e super-volontà». La resistenza all’unificazione, all’omogeneizzazione dei pensieri, degli stati d’animo e dei rapporti morali operata dallo stato, dovrà avvenire su tutti i fronti della vita civile: familiare, economica, religiosa, linguistica e culturale.
Al contrario del processo di unificazione o di omogeneizzazione compiuto dallo stato, la tendenza all’unificazione di cui parla Sturzo, presente in tutte le forme di società civile, non avverrebbe “al di fuori delle singole persone”, non sarebbero unificazioni “per sé stanti”, bensì “manifestazioni simboliche” che prendono la forma delle “leggi”, dei “parlamenti”, dei “governi centrali e locali”, degli “eserciti”, delle “scuole”, delle istituzioni culturali, dell’“arte” e della “stampa”. Tali unificazioni non dovrebbero far perdere di vista il particolare, il concreto e il personale, tutti caratteri che non andrebbero confusi con il generale e con il collettivo, dal momento che «per quanto si generalizzi, non si può mai uscire fuori dalla coscienza e responsabilità individuale neanche per creare una dialettica storica ove tutto si risolva e si spieghi come in una supercoscienza e supervolontà». Per questa ragione, Sturzo dichiara di guardarsi bene dall’uso del termine stato come una ipostatizzazione e dalla sua rappresentazione – anche meramente simbolica, basti pensare all’uso della iniziale minuscola – come un soggetto avente una coscienza e una volontà proprie.
Sturzo interprete del liberalismo
Di qui il rifiuto da parte di Sturzo di parlare di eticità dello stato e di senso dello stato, dal momento che l’eticità ed il senso esprimono la rispondenza della natura al suo fine, ed è fine della società nel suo complesso tendere al bene comune o, altrimenti detto, al bene sociale; si pensi, ad esempio, all’uso disinvolto e spesso abusato dell’espressione servitore dello Stato, alla quale fa da contraltare la più sobria ed equilibrata civil servant, come rappresentazione di un ordine civile plurarchico, nel quale il politico non esprime l’apice, bensì uno dei sistemi che interagisce e interferisce con altri sistemi, aventi pari dignità civile. Allo stato spetta il compito di favorire o, quanto meno, di non ostacolare il perseguimento, da parte di tutta la società civile, in tutte le sue articolazioni, di un simile obiettivo, ricorrendo al ruolo delle istituzioni politiche, le quali svolgeranno adeguatamente la loro funzione nella misura in cui leggi e ordinamenti saranno funzionali all’implementazione delle condizioni che consentiranno il perseguimento del bene di ciascuna persona e non di un indecifrabile e di un indefinibile Tutto.
Saranno tutte queste premesse di tipo istituzionale, policies fondate sul presupposto teorico dello stato etico: centro di unificazione delle finalità personali, omogeneizzatore delle culture particolari, a trasformare la società civile, articolata e competitiva al proprio interno, in una massa amorfa di individui omologati ad un’idea di popolo, declinabile al singolare e funzionale agli interessi della cricca momentaneamente al potere – per usare un’espressione di Ludwig von Mises e di Friedrich August von Hayek. Una tale analisi dell’ordine politico iscrive il sacerdote siciliano nel novero dei pensatori liberali e democratici critici dell’uso disinvolto del termine popolo e della sua declinazione in termini populistici, segnando il confine invalicabile tra le nozioni di popolarismo e quella di populismo.
Sturzo, dunque, si mostra come un interprete del liberalismo severo nei confronti di coloro che, in nome di una sbandierata volontà popolare, altro non inseguono che il proprio tornaconto di classe, di religione e di tribù partitica, brandendo la nozione di popolo, personificata e omogeneizzata, come una clava nei confronti dei propri oppositori.
I limiti del popolo e dello stato
In questo modo, scrive Sturzo, «il regime è diventato il monopolio di un piccolo gruppo simboleggiato in una persona ovvero di una persona affiancata da un piccolo gruppo». Il regime così costituito si servirà dello “stato come strumento di dominio” e sopprimerà ogni forma di opposizione e agirà come “fattore di conformismo politico”: «L’individuo è ridotto ad una semplice funzione gregaria (vulgum pecus); che deve mostrare di essere convinto del sistema, di essere solidale col regime, di essere entusiasta degli uomini o dell’uomo che ne è a capo». Corollario di tale impietosa denuncia del populismo paternalistico e della deriva totalitaria, entrambi per Sturzo manifestazioni del principio monistico, che trova nel metodo di autorità la sua espressione istituzionale, è il divorzio tra libertà e responsabilità. Nei regimi totalitari o paternalistici-populistici, dove la libertà è ridotta o del tutto assente, il potere politico sfugge dalle sue responsabilità, non avendo più alcun limite: né interiore (morale) né esteriore (giuridico): «La soppressione dei diritti individuali e delle libertà politiche crea una sproporzione fra la personalità umana e il potere assoluto».
La revisione teorica che Sturzo propone investe direttamente il problema politico dei cattolici, posti di fronte alla “continua spinta verso la deificazione dello stato”, la quale, per le ragioni appena esposte, legittima i partiti politici a deificare i loro fini: la nazione per i nazionalisti, la razza per i nazisti, la classe per i comunisti. Il realismo politico di Sturzo lo porterà ad affermare che non si potrà parlare di moralità nella vita pubblica e, tanto meno di carità politica, fino a quando «lo stato moderno si considererà come un Moloch perpetuamente incensato da tutti», fino a quando «i partiti si proporranno come fini lo stato e i suoi succedanei quali la nazione, la razza, la classe» e fino a quando persino i cattolici cederanno alla tentazione «di deviare dalla retta via e di andare anche noi a portare il nostro grano d’incenso alle nuove (e pur così vecchie) divinità».
Il problema di fronte al quale Sturzo pone i cattolici dei suoi tempi, ma che ridotto all’essenziale non è poi così distante dal problema politico dei cattolici di ogni tempo, dunque, anche di oggi, riguarda la domanda se, in tutta coscienza, i cattolici dovrebbero accettare o magari promuovere un regime politico che nega le libertà politiche, economiche e civili, in cambio di privilegi, per semplice quieto vivere, rinunciando in tal modo a nutrire il terreno dal quale attingere le risorse necessarie per difendere e promuovere i valori che dovrebbero stare loro a cuore. Una rinuncia che, inevitabilmente, per Sturzo, comprometterebbe la disponibilità dell’antidoto contro la violenza politica, contro la sopraffazione economica e che sappia opporsi alla prepotenza culturale di chi, avendo conquistato lo “Stato”, sarà nelle condizioni di determinare la vita, gli ideali e gli interessi delle singole persone.
Il principio di plurarchia
Sturzo affonda la sua lama nella ferita aperta, nel ventre molle di un certo mondo cattolico che sembra non rendersi conto che nel catalogo delle forme politiche, l’opzione che si presenta ai cattolici, non è tra uno “stato che si pretende cristiano (cattolico)” – che, peraltro, secondo Sturzo, semplicemente non esiste – e uno “stato liberale che si dice agnostico”. L’opzione non sarebbe neppure tra lo “stato borghese” e quello “bolscevico”, ma più correttamente tra il regime del diritto e dell’opinione e i regimi di dittatura, a prescindere dal fatto che possano assumere i connotati della sinistra o della destra. Sturzo si mostra consapevole del fatto che sia gli stati democratici sia quelli dittatoriali si basano sul principio monistico che egli, in nome del principio di plurarchia, non può non rifiutare.
Tuttavia, proprio perché Sturzo è un realista e non si rifugia in ipotetici ed esotici mondi paralleli, distinguendo tra regimi democratici e regimi dittatoriali, espone una serie di condizioni le quali, se sistematizzate, riteniamo possano assumere il carattere di modello attraverso il quale misurare il grado di democraticità di un determinato ordine politico.
1. Sturzo riconosce che, mentre i primi consentono alle persone di svolgere il loro compito, di associarsi e di esprimere liberamente le loro opinioni, i secondi ammettono solo l’“applauso”, l’“adulazione”;
2. Mentre nei regimi democratici è ancora possibile “organizzare nuclei di resistenza”, nei regimi dittatoriali tutto ciò è ormai impossibile;
3. Mentre nei primi, attraverso il pluralismo della partecipazione politica, è possibile conquistare il potere e giungere al governo del Paese, «sostenere le proprie idee, […] difendere la morale cristiana, [e] dare allo stato una moralità meno pagana, nel secondo il cittadino non può che offrire il proprio sacrificio per un avvenire che non vede».
Gli anniversari possono essere ricorrenze inutili, processioni di fantasmi, di dinosauri in cerca di rinnovata notorietà, la fiera della retorica, animata dall’ansia di protagonismo di reduci di un mondo ormai scomparso, ovvero occasioni per rilanciare un progetto, facendo memoria di un’esperienza ancora attuale.
Libertà e responsabilità come motori del processo democratico
L’auspicio è il popolarismo possa rappresentare la spinta decisiva perché quel progetto, aggiornato alle sfide dei tempi e contaminato dalle riflessioni e dalle analisi dei maggiori interpreti contemporanei delle scienze sociali, possa tornare ad essere una speranza per chi non ha mai smesso di credere nella libertà e nella responsabilità di ciascuno come motori del processo democratico.
Valgono, in tal senso le parole con le quali Sartori conclude il capitolo dedicato ai supposti “superamenti” della liberaldemocrazia, in Democrazia e definizioni: «Al di là della liberaldemocrazia quel che davvero si intravede è solo la sopravvivenza del vocabolo, del “nome” democrazia. Vale a dire di una democrazia a uso oratorio che, grazie alla fictio di una presunta adesione popolare, è atta a sanzionare l’uso più illimitato e dispotico del potere. Il che significa, detto in chiaro, che assieme alla liberal-democrazia muore la democrazia comunque la si voglia intendere, sia che la si intenda al modo degli antichi come al modo dei moderni: e cioè tanto la democrazia che si fonda sulla libertà del singolo quanto quella che richiede soltanto che il potere venga esercitato dal plenum collettivo» (G. Sartori, Democrazia e definizioni…, cit., p. 263).
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