Popolarismo versus populismo: l'attualità di Sturzo - Fondazione PER
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Popolarismo versus populismo: l’attualità di Sturzo

di Nicola Antonetti*

 

L’attività formativa dell’Istituto Luigi Sturzo nel corso del 2017 è stata impegnata con un ciclo di seminari tenutosi sul tema Popolarismo e populismo, a mettere in relazione questi due termini per rilevare, in particolare, la profonda attualità del popolarismo: una attualità che si è cercato di cogliere proprio in relazione e, come è risultato, in alternativa al populismo.

La ricerca si è volta, quindi, a una problematica difficile da afferrare e da sciogliere, perché nel confronto si sono incontrate declinazioni diverse di un medesimo termine-concetto: popolo.

Si è ritenuto che il tema dell’errata o superficiale assimilazione del termine in

questione è da affrontare soprattutto quando, come oggi, è necessario sottrarsi all’idea che le nostre democrazie contengano in sé indistinte potenzialità di consenso popolare per progredire, pressoché automaticamente, sia nella loro forma rappresentativa che nella loro sostanza ugualitaria e liberale. Il termine popolo è stato inteso non solo come espressione morfologica, ma, anche, come soggetto di esperienze politiche che si sono sviluppate e si sviluppano in specifiche condizioni storiche di varie società.

In tal senso, l’alternativa tra la concezione del popolarismo e quella del populismo è risultata profonda, non solo dal punto di vista teorico-astratto, ma anche per i modi diversi nei quali è parso possibile raffigurare il ruolo del popolo nei sistemi politici. Ovviamente, per giungere a tale conclusione (pur sempre ipotetica dal punto di vista

scientifico) è stata essenziale una ricognizione che ha presentato varie difficoltà dovendo tenere conto, innanzitutto, di esperienze asimmetriche tra loro. Col termine populismo ci si riferisce a un fenomeno complessivo, in evidente ascesa, ma di antica origine: un fenomeno plurinazionale e pluricontinentale che interessa i Paesi dell’America Latina, così come quelli del Nord Europa. Siamo di fronte, quindi, a un fenomeno poliedrico che, nelle sue articolazioni, sta crescendo in varie parti del mondo.

Diversamente, quando parliamo di popolarismo ci riferiamo, invece, a una lunga esperienza politica che, nata in Italia dopo la Grande Guerra con il Partito Popolare di Luigi Sturzo, non si esaurisce alla fine del fascismo, ma riemerge, direi improvvisamente, a metà degli anni Novanta dello scorso secolo, durante la crisi dei partiti della prima Repubblica, con la contrastata esperienza del Partito Popolare di Mino Martinazzoli, Pierluigi Castagnetti, Gerardo Bianco e altri, ispirata direttamente ai valori del popolarismo sturziano. Non si può, peraltro, dimenticare l’esperienza del popolarismo europeo sorto nel 1977 per l’aggregazione di partiti cattolici europei, dalla CDU tedesca alla DC italiana, nel Partito popolare europeo (PPE) che si organizza in vista delle prime elezioni del Parlamento europeo nel 1979. La storia del PPE sembra poco comparabile con l’esperienza originaria di Sturzo. Nonostante la presenza di una grande personalità della democrazia europea come Angela Merkel, la progressiva aggregazione di partiti privi dell’ispirazione popolare o, addirittura, sovranisti va caratterizzando il PPE come una formazione di centro-destra.

Per rilevare le diverse prospettive nelle quali si sono svolte e si svolgono le esperienze del popolarismo e del populismo in contesti diversi richiede che si individui un indirizzo analitico unitario, non limitandosi a riprendere le varie e pur importanti analisi sull’argomento. Un’ottica congruente si può trovare nella teoria della “semantica dei tempi storici”, formulata da tempo da Reinhart Koselleck. Questa teoria afferma che non si può fare storia dei concetti senza acquisire la consapevolezza che ogni concetto politico rappresenta un’esperienza nella quale si condensa, da un lato, un’intera storia e, dall’altro, un’aspettativa del futuro. Sembra un’affermazione molto appropriata al nostro scopo. Partendo dalla diversità e dall’asimmetria dei due concetti, si può immaginare che entrambi condensino in sé una cultura e un modo di vedere che dà al medesimo termine popolo un significato opposto e distinto, esprimendo specifiche visioni del futuro. In tal senso, anche un antico concetto della politica nonché del diritto, quale quello di popolo, raccoglie varie sedimentazioni storiche e culturali che lo indirizzano, in modo positivo o negativo, nell’opera di aggiornamento o di trasformazione delle istituzioni e della società. Se questo è vero, se tutti i concetti contengono prospettive utili al presente e, contestualmente aperte al futuro, come collocare il popolarismo?

Per rispondere a questo impegnativo quesito è utile richiamare una citazione sturziana. Nel 1923, alla fine dell’esperienza del Partito Popolare, in un momento di forte tensione politica, Luigi Sturzo raccoglie i suoi interventi pubblici e i saggi degli ultimi anni in un libro dal titolo Riforma statale e indirizzi politici. Nell’introduzione egli scrive che, dopo molte riflessioni, il suo popolarismo è divenuto «una vera e propria dottrina politica della quale il partito non è altro che una concretizzazione organizzativa». Sturzo ha compreso che l’esperienza del suo partito, per cause esterne e interne, volge al termine e vuole salvarne le ragioni sociali e culturali. Infatti aggiunge che la dottrina del popolarismo «è esattamente una teoria dello Stato democratico» volta a regolare sul piano istituzionale la vita del popolo, ispirandosi ai

princìpi di libertà e di giustizia propugnati dalla dottrina sociale della chiesa. Consideriamo la dottrina sociale della Chiesa all’epoca di Sturzo solo l’espressione di una cultura reazionaria o controrivoluzionaria? In parte è così. Ma cosa c’era nel “cuore” di questa cultura? A cosa mirava?

Essa, in realtà, mirava soprattutto a ridimensionare la concezione di sovranità popolare, su cui Joseph de Maistre aveva affermato: «Di chi [il popolo] è sovrano? Di sé stesso? Allora non può contraddirsi? Ma come fa il popolo a non contraddirsi?». Nell’occasione de Maistre riprendeva la denuncia di molti pensatori, «controrivoluzionari», non solo cattolici, sul rischio che al dispotismo d’Ancien Régime succedesse la «sovranità senza limiti del popolo». Ma nel Diktum maistriano c’era

qualcosa di più: la denuncia che i sistemi democratici nascondono un principio degenerativo che emerge ogni qual volta si assolutizza il potere sovrano del popolo. La storia dei totalitarismi novecenteschi ne è stata una triste esemplificazione. Anche Antonio Rosmini, pur riconoscendo che i princìpi della Rivoluzione francese erano «in gran parte veri e splendenti di giustizia e di moralità», riteneva la concezione del popolo equivoca, una sorta di pericolosa astrazione ad uso e consumo degli ideologi perfettisti per dimostrare la liceità di ogni atto rivoluzionario utile a edificare improbabili «paradisi» terrestri. Per Rosmini solo il riconoscimento del limite di ogni agire umano (individuale, sociale e politico) era garanzia per la tutela e lo sviluppo dei sistemi democratici.

Sturzo, sulla scia rosminiana, ritiene che già da quando, tra il XVIII e il XIX secolo, iniziano ad affermarsi il costituzionalismo e il parlamentarismo, si evidenziano gravi equivoci proprio sulla concezione della sovranità statale, determinandone l’incompatibilità con le libertà civili. A suo avviso, in origine il contrattualismo liberale, in particolare quello di Locke, aveva concepito una implicita distinzione, una sorta di «dualismo», tra società e Stato, sostenendo che la libertà degli individui non si esaurisce nella designazione della sovranità del popolo: diversamente, la sovranità si esprime, invece, negli atti degli individui, delle comunità e delle istituzioni la cui compatibilità con gli interessi comuni è verificata e garantita dal controllo della Civil Society. In tale modo, con il «primo contrattualismo» si difendevano le libertà (le liberties) contro ogni tipo di prevaricazione del potere statale, mentre si delineava «una concezione giuridica per trovare il fondamento dei diritti individuali o di gruppo di fronte all’autorità centrale». Il problema, secondo Sturzo, era nato con la Rivoluzione francese, quando si definirono varie specie di «pseudo-contrattualismi» che «intendono la sovranità popolare come un dato assoluto non limitato da qualsiasi

elemento originario – quale la natura razionale della personalità umana – e danno alla pretesa volontà generale (totalitaria o maggioritaria) un valore illimitato e irresponsabile». Da allora le teorie liberaldemocratiche avevano ceduto sul terreno dottrinario e ideale, cioè sulla distinzione (sul «dualismo») tra società e Stato e tra libertà e poteri politici, finendo per orientarsi verso la costruzione di un «monismo di Stato», nel quale recedeva, fino ad annullarsi, lo stesso principio della divisione dei poteri. Sturzo si confronta anche con il socialismo, ritenuto l’unica e vera ideologia che, tra Otto e Novecento, propugna la giustizia sociale. I problemi che ravvisa nelle prospettive socialiste non sono quelli legati alla scelta di provvidenze idonee a fare giustizia, sulle quali si possono creare occasioni di impegno comune, bensì quelle relative la concezione dello Stato. Il socialismo, attraverso una legittimazione da parte del popolo, ottenuta con o senza strumenti rivoluzionari, affida allo Stato il ruolo esclusivo di gestore della giustizia sociale. In tal modo, il popolo si identifica con lo Stato limitando se non escludendo (come in Unione Sovietica) il pluralismo e l’autonomia dei partiti e delle articolazioni produttive della società. Per Sturzo ogni tipo di assimilazione della società allo Stato, nella versione monistica del contrattualismo, o dello Stato al popolo, nella versione socialista, contiene i germi necessari per le involuzioni totalitarie, sia quelle fascista e nazista sia quella comunista.

Quindi, cosa era il popolo per Sturzo? E come la sua concezione diverge da quella populista nei sistemi democratici? Nelle progressive formulazioni del popolarismo sono, in modo sorprendente, poco presenti e talora negativi i riferimenti diretti al termine popolo. Si parla talora di un «popolo amorfo e disorganico» o di «massa indistinta», la cui identità unitaria è ricavabile unicamente dal suo essere o considerarsi maggioranza politica in un territorio e, in quanto tale, legittimata a contrastare o a combattere, sulla base di una malintesa concezione della sovranità, le minoranze e le opposizioni contrarie ai suoi interessi, pratici e ideali. Sturzo è sempre contrario all’uso del termine popolo quando esso è inteso come nebulosa numerica che, essendo priva di una qualsiasi identità sociale e politica autonoma e riconoscibile, è a rischio di essere eterodiretta e, quindi, disponibile alla realizzazione di obiettivi e di strategie politiche propri di soggetti politici «terzi», singoli o collettivi. Tale contrarietà non è ‘di principio’, bensì fondata sull’idea, lungamente coltivata, dell’inevitabile e propizio processo di «individualizzazione» che conduce l’uomo e la società ad acquisire una comune identità, non astratta ma storica ed etica, in grado di realizzare in modo plurale quella «coscienza individuale-sociale di ordine e di difesa che è l’origine unica della forma politica», cioè dello Stato. In sostanza il termine popolo per Sturzo assume significati pericolosi se non esprime l’identità degli individui e della società con le sue articolazioni e le sue «forme» sociali, territoriali, politiche e istituzionali: cioè degli unici attori che, in modo libero e all’interno di un comune sistema politico, sono legittimati a definire le regole e a determinare le azioni dello Stato democratico, senza esclusioni reciproche.

A questo punto è fin superfluo rilevare la distanza tra l’idea sturziana del popolo e quella agitata dai tanti populismi vecchi e nuovi. Se si ha presente tale visione si comprende agevolmente che essa è alternativa rispetto a ogni idea di potere agire in nome del popolo sovrano eliminando quelle mediazioni politiche e istituzionali che per Sturzo sono di per sé garanzia dell’ordinamento democratico. In questa stagione

critica della nostra democrazia avvertiamo che sono in affanno gli enti intermedi, cioè quei processi di intermediazione nei quali agiscono gli attori politici e sociali. Nella cosiddetta “democrazia del pubblico” cedono le funzioni di integrazione e mediazione dei partiti e delle amministrazioni e si sviluppa un nuovo modello di cittadino: questi non è più l’homme situé delle varie tradizioni democratiche occidentali, cioè l’uomo che vive e opera in tutti i livelli sociali (dalla famiglia, al lavoro, alla politica), bensì solo un cittadino-elettore: uno che vale uno (un’unità chiamata al voto) e che fa parte della massa del “pubblico”, cioè del “popolo”. Gli interessi personali e sociali non sono più collocati e difesi nella e dalla pluralità delle istituzioni, ma coinvolti in operazioni avverse ad ogni forma di establishment (rappresentate dalle élites) e disponibili ai progetti di leadership personali, cioè di leader capaci di creare consenso con i più svariati mezzi in ambiti prevalentemente specifici e nazionali. Ma i circuiti che si creano tra leadership e popolo non possono che produrre indirizzi politici settoriali, contro qualcuno o qualcosa, e tendenzialmente non sono in grado di incidere positivamente nell’odierno e complesso “ordine globale”.

Se queste rapide annotazioni hanno qualche valore è possibile sviluppare una meditata contestazione delle degenerazioni inflitte dai populismi al significato del termine popolo e, insieme, legittimare il popolo, nella articolata e perfettibile concezione del popolarismo, alla difesa e allo sviluppo dei nostri sistemi democratici.

 

*Testo tratto da Discorsi sul “popolo”. Popolarismo e populismo, N. Antonetti a cura di, Editoriale Scientifica, Napoli 2020, pp. 7 – 12.

Nicola Antonetti
antonetti@per.it

Professore emerito di Storia delle dottrine politiche all’Università di Parma, è stato presidente del Comitato tecnico ordinatore della Facoltà di Scienze politiche, direttore del Dipartimento di Studi politici e sociali dal 2000 al 2008, e coordinatore del Dottorato di ricerca in Sociologia e Sistemi politici. Fa parte dei comitati scientifici internazionali delle riviste «Il Pensiero politico» e «Storia, amministrazione, costituzione», ed è presidente dal 2010 dell’Associazione italiana degli storici delle dottrine politiche. Tra i principali studiosi italiani del pensiero politico cattolico, è uno dei maggiori conoscitori dell'opera di don Luigi Sturzo. I più recenti indirizzi dei suoi studi sono stati rivolti, da un lato, all’evoluzione, tra Otto e Novecento, delle istituzioni e delle organizzazioni politiche italiane ed europee; dall'altro, ai dibatti giuridici e politici che hanno animato gli sviluppi dei costituzionalismi moderni e contemporanei. Dal 2014 è presidente dell’Istituto Luigi Sturzo.

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