
25 Set Quale riformismo? E per conto di chi? Gli ostacoli di una azione riformista
di Paolo Segatti
Il Covid 19 tra i tanti suoi effetti negativi ne ha avuto uno potenzialmente positivo. Ha messo d’accordo ogni parte politica nel dire che non si deve tornare allo status quo ante Covid 19. Le usuali retoriche dei conservatori, quelle analizzate da Hirschman, sono scomparse. Tutti sono diventati riformisti. In effetti il paese ha bisogno di riforme strutturali. Occorre spezzare i vincoli che ne hanno bloccato lo sviluppo da decenni. Colmare squilibri territoriali come quello tra Nord e Mezzogiorno. Riequilibrare profonde le diseguaglianze, a cominciare da quelle che escludono moltissimi dall’accesso ad una istruzione e ad una sanità di qualità.
Riforme difficili, e costose. Ma grazie all’Unione Europea stavolta c’è la possibilità concreta di fare quello che tutti dicono che bisognerebbe fare in circostanze simili, trasformare una crisi in una opportunità di crescita economica e civile. Come, per esempio, riuscirono a fare gli Stati Uniti d’America negli anni 30 con il New Deal. Per trasformare una crisi in una opportunità è però decisivo riuscire a distinguere i problemi pressanti (solidarietà ai ceti colpiti dalle conseguenze della pandemia) dai problemi strutturali di lungo periodo (cosa riformare per ricostruire le condizioni dello sviluppo). Se non ci si riesce, si rischia di piegare il riformismo alle ragioni del “meno peggio”, che per una classe politica in affanno tendono a coincidere con il principio della sopravvivenza. Per evitare tale pericolo a me pare utile valutare quali possano essere gli ostacoli che impediscono di andare oltre l’emergenza.
Alcuni sembrano ovvi. Un governo di coalizione tra forze politiche molto diverse tra loro. Lo stile con il quale le due maggiori forze di opposizione contrastano l’azione di governo. Infine l’inefficienza dell’amministrazione pubblica.
Il riformismo? Un esercizio di possibilismo
Eppure a me pare non siano questi gli ostacoli più importanti ad una azione riformatrice. Se gli ostacoli fossero effettivamente solo quelli indicati, sarebbero tipici di ogni democrazia parlamentare e di uno stato poco efficiente. In un contesto democratico, come ricordava Hirschman, il riformismo è sempre un esercizio di possibilismo in una situazione dove il passato e le necessità immediate tendono a definire l’orizzonte delle cose possibili. Ma anche in questo caso ci sono sempre opportunità di innovazione da cogliere. L’importante è vederle.
La mia impressione è che le opportunità possono essere viste e colte ad una condizione, che ritroviamo nelle grandi stagioni del riformismo democratico, che i riformisti riescano ad identificare la coalizione di gruppi sociali che potrebbero condividere in qualche misura la loro idea di società. Tanto più una riforma che vuole essere ambiziosa tanto più deve tener conto del fatto che l’elettorato non è un aggregato infinitamente scomponibile di clienti da soddisfare, ma è un insieme di gruppi i cui interessi in parte si sovrappongono e in parte confliggono e dei quali occorre tener conto sia per ottenerne il consenso di alcuni alle riforme sia per neutralizzarne l’opposizione di altri. È necessaria dunque la consapevolezza che ogni riforma dell’esistente non può prescindere dai vincoli e dalle opportunità determinate dall’articolazione pluralista della società. L’azione riformatrice parte inevitabilmente da una decisione. A chi dire di sì e a chi dire di no. Ma procede sempre per negoziati e compromessi. Talvolta, ci si trova nella situazione in cui su temi rilevanti che potrebbero incrinare il consenso all’azione di riforma si decide, consapevolmente o meno, di non decidere. Capitò così in merito al tema dei diritti civili agli Afro-Americani, quando si avviarono le grandi riforme sociali ed economiche negli anni ’30.
Quale idea di Italia?
Queste considerazioni, non nuove, ci portano a chiederci quale idea di Italia hanno le forze politiche e quali sono i gruppi o i segmenti di opinione pubblica sui quali pensano di far leva per far passare le riforme e soprattutto per dare a queste ultime respiro di lungo periodo.
Non credo di essere l’unico a non aver trovato risposte a queste domande. È ovvia la necessità di affrontare l’emergenza economica. Ma ad oggi dall’elenco dei macro-settori su cui investire non mi pare emerga con chiarezza la visione di quale potrebbe essere la coalizione riformatrice o per lo meno i segmenti di opinione pubblica mobilitabili al cambiamento del paese. Il che non vuole dire che, sia al governo che all’opposizione, non ci siano politici responsabili che stiano ragionando proprio sulla necessità di definire, dal loro punto vista, chi sono quelli ai quali va detto di no e quelli ai quali va detto di sì. La commissione Colao ha detto cose importanti al riguardo. Draghi ha indicato nei giovani e nella loro istruzione il segmento sociale sul quale fare leva per cambiare il modello di sviluppo.
Per il momento però le forze politiche a me paiono reticenti sul rapporto tra le risorse da investire, le ricadute attese sui gruppi sociali da promuovere o soltanto da proteggere dai costi dell’aggiustamento economico, e infine le caratteristiche del funzionamento della rappresentanza politica, territoriale e funzionale, che poi sono quelle a fare la differenza tra una spesa socialmente produttiva e una improduttiva, come ha mostrato una volta di più Carlo Trigilia nel caso del nostro Mezzogiorno (Paradoxa, 2019, anno XIII, n.4). Insomma se ci chiediamo che idea di sviluppo ci viene proposta e quale dovrebbe la coalizione di interessi e di valori sulla quale fare leva non abbiamo le risposte che vorremmo, sia dal governo che dall’opposizione. Perché accade questo?
Un problema di cultura politica
Vorrei indicare alcune ragioni. La prima ha a che fare con la cultura politica di una parte significativa del nostro ceto politico, esemplificata benissimo da quella presente nella formazione di maggioranza in parlamento e al governo dal 2018 in diverse alleanze. Una cultura politica nella quale centrale è l’idea che rappresentare coincide con un agire in totale sintonia con i desideri dei propri elettori. In altre parole lo stile di rappresentanza al quale la maggioranza degli eletti che grazie ai terremoti del 2013 e del 2018 sono entrati in Palamento, senza avere alle spalle una qualche carriera politica, dichiara di uniformarsi è quello del delegato. Va tuttavia subito aggiunto che definirsi portavoce non implica affatto esprimere preferenze di policy effettivamente congruenti con quelle dei propri elettori, come molti studi mostrano. Ciò non toglie che definirsi come delegato riveli una idea della rappresentanza politica tutta schiacciata sulla componente della responsività. Non solo, ma anche una idea di rappresentanza che finisce per privilegiare il rispondere alle necessità di individui e di piccoli gruppi per come queste vengono espresse. Difficile che in questa visione il tema della coalizione riformatrice formata da gruppi sociali ampi venga avvertito come un problema.
La crisi del pluralismo
La seconda ragione è che gli attori storici del pluralismo sono da tempo in evidente crisi. Tutto ciò rafforza l’illusione che la società sia composta effettivamente solo da individui, come se le forme mutevoli di aggregazione e socialità delle quali ognuno di noi inevitabilmente fa parte non si prestassero a venire (ri)-politicizzate in vari modi e quindi tornare elettoralmente rilevanti oltre che pubblicamente visibili. Se a questa illusione aggiungiamo anche la convinzione, particolarmente diffusa nel nostro paese tra chi studia e commenta la politica, che la cosiddetta disintermediazione sia qualcosa di più di una forma di comunicazione diretta tra leader ed elettori resa possibile dai social media, a me pare evidente che il problema di scegliere a quale gruppo dire di sì e a quale invece dire di no non possa essere percepito come un problema. Così non accadde in alcuni momenti della storia repubblicana. I partiti storici seppero assumersi il rischio di decisioni divisive, pagando anche il prezzo che tali scelte usualmente comportano. Per esempio, La Dc con la riforma agraria e il primo centrosinistra con riforme come la nazionalizzazione dell’industria elettrica o la riforma dell’accesso alle medie inferiori che aprì la porta all’istruzione di massa.
Le preferenze economiche degli italiani
Credo che ci sia anche una terza ragione che porta le forze politiche a non porsi il problema della coalizione riformatrice. Riguarda stavolta il grado di articolazione delle preferenze sui temi economici dei loro elettori. Diverse indagini hanno puntualmente mostrato che le preferenze economiche degli italiani non sono polarizzate come lo sono quelle sui temi dell’immigrazione, sui temi culturali e sull’Europa. Per di più a livello individuale sono anche contraddittorie. Per esempio, si può essere a favore di un livello di tassazione inferiore e al tempo stesso dirsi altrettanto favorevole al miglioramento della sanità pubblica. Se dalle preferenze di policy risaliamo agli atteggiamenti verso l’alternativa tra stato e mercato, la struttura dell’opinione pubblica è ancora più confusa, socialmente e politicamente, come le indagini EVS-WVS mostrano da diversi decenni. D’altronde non potrebbe essere che così, dal momento che gli italiani non sono mai stati effettivamente esposti ad una competizione tra le forze politiche sui temi del rapporto tra mercato e stato che andasse oltre a dichiarazioni di principio, prontamente disattese nella azione di governo. Dunque, non esiste oggi, come con molta probabilità non esisteva neanche in passato, una domanda chiara ed univoca da parte degli elettori né di politiche stataliste né di politiche liberiste che consenta ai politici dei vari partiti di cogliere con accuratezza, se non le preferenze di policy dei loro elettori, almeno la direzione verso cui tendono chi li vota, come invece accade in altri paesi.
Una domanda di intervento statale
Se osserviamo il rapporto tra eletti ed elettori nella situazione del dopo pandemia notiamo invece due caratteristiche.
Anzitutto la presenza di una retorica, egemone nella maggioranza parlamentare che sostiene il Conte 2 (ma forse lo sarebbe stata anche in quella che sosteneva il Conte 1), che auspica un maggiore intervento statale persuasa che il terremoto del 2018 e di quello alle elezioni precedenti sia stato causato da una reazione alle politiche “neoliberiste” dei governi di questi anni. Non c’è tuttavia una robusta evidenza che questa sia una descrizione accurata di quello che è effettivamente accaduto nelle due ultime elezioni, come ho cercato di mostrare in un lavoro recente (Schadee, Segatti e Vezzoni, 2019, Bologna , Il Mulino).
Una domanda di protezione
In secondo luogo c’è una estesa domanda di protezione da parte degli elettori. Ma come spesso accade, le domande di protezione urgente e immediata non possono che esprimersi con le parole dell’esistente e chiedere le cose conosciute. I problemi pressanti in democrazia si manifestano inevitabilmente in questo modo. Dovrebbe essere compito della politica cogliere dietro la domanda di protezione il potenziale interesse ad una riforma in grado di risolvere i problemi strutturali che hanno contribuito a creare i problemi pressanti. Invece, la politica italiana non è in grado di farlo non solo per le prime due ragioni, ma anche per la terza che abbiamo indicato. Perché l’elettorato italiano non è diviso sui temi economici ad un grado tale da costringere i suoi rappresentanti ad essere consapevoli con accuratezza della direzione in cui vanno le sue preferenze. Anzi, per quanto possa sembrare paradossale a sinistra i rappresentanti sono sempre stati più favorevoli ad un approccio statalista di quanto lo fossero i loro elettori.
Difficile individuare una coalizione riformatrice
Allora, se l’identificazione di una coalizione riformatrice è la condizione preliminare perché si possa avviare un riformismo possibilmente ambizioso, non si può essere ottimisti. Ci sono ostacoli seri alla sua individuazione sia per le forze politiche di sinistra che di destra per le tre ragioni che ho indicato. In questo quadro le speranze residue dovrebbero puntare sulla possibilità che si creino in qualche angolo della policy comunity nazionale piccoli gruppi di decisori in grado di usare i prestiti europei per eliminare alcuni dei colli di bottiglia che impediscono la crescita. Ma anche queste speranze scontano l’ostacolo rappresentato dalla elevata dispersione delle risorse politiche necessarie ad una decisione politica in grado di dislocare gli impedimenti strutturali. Difficile che il nostro sistema politico con partiti inesistenti e governi deboli possa assegnare ad eroici innovatori le risorse politiche necessarie per riuscire nell’impresa. Questo a ben vedere allora è l’ostacolo decisivo ad un riformismo che ambisca a non replicare il passato. Ma non sembra che questo sia un problema in grado di bucare la coltre delle retoriche oggi dominanti nel ceto politico circa le riforme istituzionali. Il proporzionalismo è il suo dio e i parlamentari in ansia di rielezione i suoi profeti.
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