
19 Nov Riforme costituzionali: l’agenda realistica
di Stefano Ceccanti
Con l’entrata in vigore il 6 novembre della riduzione dei parlamentari e in attesa dei nuovi collegi da costruire entro due mesi secondo la legge 51/2019, si è aperta la strada di ulteriori riforme incrementali.
Mi soffermo qui sulle sole riforme costituzionali, lasciando da parte per ora quelle regolamentari ed elettorali che hanno logiche diverse e comunque indipendenti.
Al momento la richiesta di verifica di Italia Viva ha bloccato queste ulteriori riforme costituzionali incrementali, ma è ragionevole ipotizzare che entro poche settimane il cammino possa riprendere.
Il voto ai 18-25 enni al Senato è quella piu’ matura perché richiede solo il voto finale in entrambe le Camere. E’ più che giustificata in termini di principio perché sette classi di cittadini maggiorenni non possono essere escluse; finché ciò non accade il Senato non può dirsi eletto a suffragio universale. E’ anche però di forte impatto pratico perché si annullano i rischi di maggioranze diverse tar due Camere che ancora danno entrambe la fiducia al Governo.
Ragionevoli, ma di impatto minore, le altre due che sono contenute nella riforma Fornaro: il superamento della base regionale al Senato (ulteriore rafforzamento della logica di non spingere irrazionalmente a maggioranze diverse tra le due Camere) e la riduzione dei delegati regionali per l’elezione del capo dello Stato per ripristinare il rapporto quantitativo tradizionale coi parlamentari.
C’è spazio, avendo metà legislatura davanti, per altri interventi?
Direi di sì senza ignorare però un vincolo politico: le forze che hanno votato No al referendum del 2016 non possono, per loro coerenza, approvare testi che assomiglino troppo a quello da loro bocciato. Un’agenda realistica deve quindi partire dal presupposto che cambiamenti radicali del Senato (il superamento dell’elezione diretta e del suo rapporto fiduciario) non sono proponibili.
Con questo presupposto il Pd nei mesi scorsi ha presentato due testi.
Il primo ripropone una clausola di supremazia nazionale per rendere flessibili i confini tra le materie di competenza di Stato e Regioni, bilanciandola non con un Senato radicalmente rinnovato, ma con la costituzionalizzazione della Conferenza Stato-Regioni, che oggi ha una dignità solo legislativa e che potrebbe dare un parere sull’esercizio della clausola. Non si ritorna quindi alla centralizzazione precedente al Titolo Quinto (che aveva il difetto di omettere una clausola di quel tipo, presente anche negli Stati federali, non di voler responsabilizzare gli enti intermedi) né alla riforma del 2016, ma si individua puntualmente un’esigenza scoperta bilanciandola con una corresponsabilizzazione nazionale delle Regioni.
Il secondo, il testo su cui il pd sta per lanciare anche una raccolta di firme, incrocia due esigenze: la prima, quella rilanciata in particolare da studiosi come Enzo Cheli e Andrea Manzella, tende a valorizzare il Parlamento in seduta comune che ora con 600 membri e non più 945 può finalmente essere una sede unitaria di rappresentanza (per fiducia, sfiducia, decreti, bilancio, ecc.) e non solo un seggio elettorale; la seconda, quella sottolineata da Luciano Violante, di trovare forme nuove di raccordo tra legislatori nazionali e regionali. A partire da queste due ispirazioni convergenti il testo Pd giunge a varie proposte concrete che, in tutto o in parte, possono già essere recepite in questa legislatura. Quelle che dovessero residuare sarebbero comunque un patrimonio di proposte realistiche che il Pd potrebbe rilanciare nel 2023, confermandosi anche per il prossimo Parlamento come il partito portatore di un ragionevole aggiornamento costituzionale.
Nessun commento