
11 Mar Ripensare il modello di distribuzione e di consumo del cibo
di Caterina Avanza
Viviamo oggi in quella che gli scienziati chiamano «l’era climatica» cioè, detto in parole povere, quella in cui la natura si ribella contro l’uomo. Assistiamo con regolarità a fenomeni di una estrema violenza: inondazioni, siccità, incendi, tempeste e uragani. La sfida che abbiamo davanti è quella di riprendere la mano sul riscaldamento climatico, rallentandolo, stoppandolo. E sappiamo, perché i report scientifici non mancano, che per farlo dobbiamo raggiungere la neutralità carbonica entro il 2050. È l’obiettivo che si è fissata la Commissione europea presieduta da Ursula van der Layen.
Seppur l’agricoltura non faccia parte dei settori a più forte impatto di CO2, anzi è in parte funzionale al suo assorbimento, siamo pur sempre lontani dalla neutralità – in Europa 11% della CO2 prodotta deriva dal settore agricolo, 24% a livello mondiale. Il dato sullo spreco alimentare è forse il più allarmante – ogni anno, 30% della produzione alimentare mondiale non viene consumata – in superfice coltivabile si calcola corrisponda alla taglia di tutto il Messico!
Oltre alla questione climatica, stanno emergendo altre esigenze ambientali e di salute sempre più sentite dai consumatori, come il benessere degli animali, la riduzione degli antibiotici e dei pesticidi chimici, la protezione della biodiversità – la scomparsa di un importante numero di insetti e in particolare la fragilità delle api, funzionali all’uomo, sono temi sensibili nell’opinione europea e italiana.
A queste esigenze del consumatore si aggiunge una questione più italiana d’ordine etico e sociale: il costo della manodopera e l’odiosa problematica del caporalato.
In tale contesto, il settore agricolo italiano non farà eccezione e dovrà procedere ad una trasformazione progressiva ma drastica, in materia di impatto ambientale, di salute pubblica, di digitalizzazione e di robotizzazione.
Ma come possono le imprese agricole italiane alzare gli standard ambientali e sociali se i prezzi dei prodotti agricoli non trasformati sono fermi da 30 anni? Come fanno ad investire nell’innovazione se al produttore va soltanto una parte irrisoria del costo finale del prodotto? Prendiamo il latte: nell’83, il prezzo al consumo per un litro di latte era di 0,50 centesimi di euro (equivalente in Lire) e all’allevatore ne andavano 0,23 centesimi, cioè quasi la metà. Oggi un litro di latte costa in media 1,46 euro e all’allevatore vanno soltanto 0,36 centesimi.
Se continuiamo di questo passo, in Italia, perdureranno soltanto le realtà che trasformano e che esportano, il nostro tessuto agricolo rischia l’indebolimento creando di fatto un danno ambientale ed economico senza precedenti. Perché, come riconosciuto dalle Nazioni Unite, l’agricoltura non serve soltanto a produrre alimenti ma rende dei “servizi ecosistemici” fondamentali come il contribuire alla regolazione dei cicli naturali – quello dell’acqua e della CO2 (non sono solo le piante a trattenere una quantità di anidride carbonica che non viene re-immessa nel sistema, ma anche la terra). Senza contare il patrimonio culturale e paesaggistico e quindi turistico che nel nostro paese è legato alla presenza di un’attività agricola importante.
Siamo quindi di fronte a quello che si dice, un cane che si morde la coda!
Una parte degli agricoltori italiani si sente preso in ostaggio: da un lato delle esigenze legittime dei consumatori d’ordine ambientale, sociale e di salute sempre più alte e, dall’altro, un prezzo di vendita del prodotto che non permette delle pratiche produttive virtuose.
Di conseguenza, la tentazione di cedere a un discorso protezionista è sempre più forte fra gli agricoltori italiani e non solo. I trattati di libero scambio, e più in generale la globalizzazione sono spesso considerate come le cause delle difficoltà di una certa agricoltura nel nostro paese.
In realtà, se è vero che il mercato unico europeo e i trattati di libero scambio hanno, su certi prodotti non trasformati, creato delle situazioni di concorrenza insostenibili, è altrettanto vero che una larghissima fetta della nostra agricoltura è cresciuta tantissimo grazie all’apertura e alle esportazioni.
Prendiamo l’esempio del CETA (accordo di libero scambio con il Canada) che ha permesso all’export agroalimentare italiano di aumentare del 7,4% in un solo anno. Questo trattato tutela ben 41 denominazioni italiane, pari a oltre il 90% del fatturato dell’export nazionale a denominazione d’origine nel mondo, ed elimina le tariffe doganali per il 98% dei prodotti che la Ue esporta verso il Canada.
In dettaglio, le statistiche parlano di significativi incrementi per prosciutto (+20%, San Daniele da solo +35%), pasta e biscotti (+24%) e formaggi (+12%), cioccolato (+123%). Il vino italiano sul mercato canadese, raggiunge un valore di 214 milioni di euro, con un +2,7% complessivo e 12,6% per il prosecco.
Ma allora, come uscire dall’ impasse?
Elenchiamo qui alcuni spunti riflessivi:
1- Aumentare le filiere produttive DOP, IGP e STG
Le filiere produttive DOP, IGP, STG sono riuscite a organizzarsi per mantenere alto il valore del prodotto, spesso riconosciuto anche nell’export. Sindacati agricoli e ministero dell’agricoltura, in collaborazione con l’Unione europea dovrebbero riflettere ad estendere questo sistema ad altri prodotti. In Francia, per esempio, una riflessione è in corso sulla filiera della carne bovina.
2- Convocare gli stati generali dell’alimentazione e iscrivere nella legge il processo di creazione del prezzo dei prodotti agricoli non trasformati
Tra il contadino e il consumatore c’è una filiera molto lunga, composta da mastodonti che hanno il potere di fissare i prezzi, trattenendo la fetta più grande del reddito del prodotto.
È necessario mettere tutti gli attori, dalla produzione alla distribuzione, attorno ad un tavolo affinché si ricrei un dialogo. Dopodiché sta alla politica legiferare e fare in modo che il prezzo del prodotto agricolo non venga più fissato dal distributore ma dagli agricoltori, pena sanzioni. Consiglio di studiare la legge francese loi Egalim promulgata nel 2018 che ha per obiettivo proprio quello di risolvere l’equazione posta sopra.
Interessante anche l’approccio del presidente francese Emmanuel Macron, che dopo due anni dalla promulgazione della legge Egalim, ha voluto fare un primo bilancio. In un intervista data alla stampa [1] ha elogiato la marca di distribuzione Lidl e ha dichiarato che il Governo ha assegnato in giustizia Leclerc per non rispetto dei patti presi durante gli stati generali dell’alimentazione e per non rispetto della loi Egalim.
3- Fare una legge che obblighi i marchi ad indicare il prezzo pagato al produttore sul prodotto finito.
Oggi, il consumatore non è messo in condizione di scegliere. Immaginiamo per un attimo se il consumatore fosse messo di fronte ad un litro di latte marca X a 1,46 euro al litro, prezzo riversato all’allevatore 0,36 centesimi e marca Y a 1,56 al litro prezzo pagato al produttore 0,76 centesimi. In quanti sceglierebbero la marca X? Probabilmente 20% dei consumatori che non possono assolutamente permettersi di spendere di più anche se qualche centesimo. Ma, l’80% sceglierebbe la marca Y. E’ quello che ha dimostrato la marca “C’est qui le patron? [2]” (chi è il capo?) che ha iniziato con il latte e adesso sta allargando l’offerta con molto altri prodotti freschi.
All’origine di questo progetto c’è un patto di fiducia fra il consumatore e l’agricoltore. Il primo si impegna a pagare il prodotto leggermente più caro e il secondo si impegna a rispettare un disciplinare costruito da una comunità di consumatori. Il latte C’est qui le patron? è oggi la marca di latte la più consumata dai francesi.
In Italia, un esempio interessante lo si trova in Calabria, nella Locride con il Consorzio Goel [3]. In questa regione, il prezzo medio delle arance, pagato al produttore può variare tra 5 e 15 centesimi al chilo. A questo prezzo è impossibile non aver ricorso a prodotti chimici e soprattutto al caporalato. Goel Bio, con un prezzo di conferimento fissato a 40 centesimi di euro al chilo, paga ai suoi soci conferitori il prezzo più alto mai pagato agli agricoltori calabresi per le arance biologiche. Questo prezzo è possibile perché il consumatore ne è informato e quindi ha facoltà di scegliere un prodotto sano e che non sfrutti gli essere umani.
4- Implementare il Patto di politica alimentare di Milano
Lanciato all’occasione dell’esposizione universale del 2015, si tratta di un manifesto per la costruzione di piani alimentari territoriali sostenibili. 27 misure concrete che indicano la strada per: connettere le città con le loro zone rurali e agricole, sviluppare circuiti diretti, incoraggiare la circolarità e lottare contro lo spreco alimentare.
Un esempio interessante sono i 5 allevatori di vacche da latte di Abbiategrasso che hanno cominciato a lavorare anche i derivati del latte, e si sono rivolti al mercato locale, trovando un approdo nelle mense scolastiche della metropoli milanese. Qui c’è un attore, Milano Ristorazione, che con i suoi 85 mila pasti serviti al giorno è, di fatto, il più grande ristorante d’Europa ed è in grado di assorbire la loro produzione.
[1] https://www.ouest-france.fr/politique/emmanuel-macron/entretien-emmanuel-macron-doit-proteger-les-agriculteurs-et-reussir-la-transformation-6746122
[2] https://lamarqueduconsommateur.com
[3] https://valori.it/goel-bio-il-modello-funziona-e-da-oggi-confeziona-gli-agrumi-biologici/
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