
11 Mar Scienza e razionalità nella lezione weberiana
di Luciano M. Fasano
Ci sono passaggi di epoca: momenti della storia innanzi ai quali siamo consapevoli che il mondo sta radicalmente cambiando e che la nostra capacità di comprenderne il senso è messa a dura prova, se non addirittura contraddetta. Weber fu protagonista di uno di questi passaggi, sul finire del primo decennio del Novecento, quando il 7 novembre del 1917, con la Prima guerra mondiale ancora in corso, tenne la sua conferenza sulla Scienza come professione, nella quale trova sintesi la visione dell’impresa scientifica propria del sociologo tedesco. Oggi, un secolo dopo quegli avvenimenti, in quel 2020 che verrà ricordato dalla storia come l’anno della pandemia da Covid-19, ci troviamo ad affrontare un nuovo passaggio di epoca. E la lezione di Max Weber sul modo di intendere la scienza risulta quanto mai attuale, soprattutto in una fase di transizione come quella che ci accade di vivere, in cui si evidenzia un paradosso fra crisi della razionalità (dal populismo al no-vax) e domanda di sostegno e cura (dalla rivalutazione dell’intervento pubblico ai vaccini anti Covid-19).
1. Il contesto storico
Per comprendere la concezione weberiana dell’impresa scientifica è necessario anzitutto tener presente il clima culturale dei primi due decenni del Novecento, cioè il contesto in cui Weber elabora la sua riflessione sulla scienza, che trova sintesi nella conferenza tenuta a Monaco nel 1917 dal titolo La Scienza come professione, ma che prima ancora rinvia ai saggi pubblicati nella raccolta dal titolo Il metodo delle scienze storico-sociali. Il clima di quegli anni era drammatico: basti ricordare come si fosse ancora nel pieno della Prima guerra mondiale. Ma non era soltanto quel tragico evento bellico a condizionare l’humus storico di quel periodo. Vi era anche la crisi della società aristocratica e dei suoi valori, che aveva avuto il suo cuore nella vecchia Europa, che si rispecchiava sempre più nella crisi della filosofia e nelle profonde trasformazioni che stavano investendo il mondo delle scienze fisico-naturali. In questa transizione, autori come Husserl, Nietzsche e Marx sono destinati a influenzare profondamente l’opera weberiana. Per ammissione dello stesso Weber, come ricorda Baumgarten in Max Weber. Werk und Person: “l’onestà intellettuale, e specialmente di un filosofo del nostro tempo, può essere misurata dalla sua posizione nei riguardi di Nietzsche e di Marx. Chi non ammette che senza l’opera di questi due pensatori non sarebbero stati possibili neanche parti essenziali della propria opera, inganna se stesso e gli altri”. Fare i conti con Nietzsche e Marx per Weber significa andare alla ricerca di una strada per sottrarsi al determinismo storicista e al nichilismo, così come di altre possibili soluzioni riduttiviste che sono le vie di uscita dalla crisi culturale europea che Weber esclude di poter intraprendere. In tal senso, Weber cerca una risposta alternativa alla critica della società capitalistica di Marx, così come alla critica radicale e nichilista del mondo borghese di Nietzsche, consapevole com’è che l’affermazione della società capitalistica borghese segni un punto di svolta, non solo perché apre a nuove contraddizioni o rappresenta la fine di un’epoca, ma in quanto determina ex novo la condizione di vita effettiva dell’uomo moderno, che occorre comprendere nel suo senso più profondo.
Weber si sforza di fare i conti con il definitivo tramonto di quel mondo fondato su valori assoluti che in Nietzsche trova sintesi nell’adagio “Dio è morto!” e nella conseguente esaltazione del super-uomo dello Zarathustra, padrone assoluto di se stesso sebbene ormai privo delle certezze che si era costruito nei secoli. E lo fa sostituendo al nichilismo neatzscheano la solitudine di un uomo moderno che, pur vedendosi mancare i fondamenti assoluti sui quali fondava la propria esistenza nel passato, rintraccia il senso definitivo della propria condizione nei valori che sono parte della sua esperienza di vita quotidiana, consapevole però che essi non sono immutabili e unici, poiché nella società moderna ve ne sono una moltitudine, altrettanto importanti e creduti da altri esseri umani.
2. Da Husserl, oltre Husserl
Ciò per Weber significa prendere l’abbrivio di una scienza che sia in grado anzitutto di anteporre la visione e comprensione dei fenomeni nella loro essenzialità, colta attraverso costruzioni idealtipiche, alla definizione formale dei criteri di validità del conoscere, nel tentativo di ricercare un compromesso fra ciò che proceduralmente rende l’impresa scientifica rigorosa e ciò che la rappresenta come manifestazione concreta attraverso l’agire dotato di senso, che è sempre e comunque agire sociale, dello scienziato e del ricercatore, a partire dalle scelte di valore che egli è inevitabilmente tenuto a compiere nella sua attività di studio. In questo senso, la prospettiva weberiana mostra delle evidenti assonanze con quell’approccio fenomenologico che in quegli anni rintracciava in Husserl il suo principale riferimento nella cultura tedesca ed europea. Quanto assidua possa essere stata la frequentazione di letture husserliane da parte di Weber non è facile da stabilire, tuttavia è evidente che nella Scienza come professione riecheggia l’influenza de La filosofia come scienza rigorosa. Un’opera nella quale Husserl, da un lato, riflette sulla crisi della filosofia, dall’altro denuncia l’illusorietà delle soluzioni riduzioniste – in particolare, storicismo, naturalismo e psicologismo – e infine introduce lo statuto epistemologico, filosofico e concettuale della fenomenologia, partendo da concetti chiave fra i quali – oltre a fenomeno, essenza, riduzione fenomenologica – vi è anche quello di “intenzionalità”, che non a caso rappresenterà uno dei cardini fondamentali della sociologia comprendente weberiana.
Com’è noto, in Husserl l’attenzione si concentra non sull’oggetto della conoscenza, che nella sua fondamentale natura resta sostanzialmente insondabile, ma sull’atto del conoscere, rispetto al quale egli sostiene la necessità di una forma della filosofia, la fenomenologia appunto, finalizzata ad indagare la relazione tra soggetto e oggetto della conoscenza, per come tale relazione possa fondarsi sulla coscienza intenzionata del soggetto. In contrasto con le strategie a suo dire riduzioniste, che intenderebbero ciò che è vero o falso solo in chiave contingente, ovvero in stretta relazione con le strutture biologiche e psicologiche, oltre che con il contesto storico, dalle quali esse dipendono, Husserl si pone l’obiettivo di portare la filosofia su un terreno di evidenza assoluta, che diviene possibile solo liberandosi dal riferimento esperienziale al mondo attualmente vissuto e riferendosi alle sue realtà ideali, quelle che chiama “essenze”. In questo senso, nella prospettiva husserliana la filosofia – meglio ancora sarebbe dire la fenomenologia – diventa scienza rigorosa non assumendo come oggetto il mondo costituito, ma viceversa interrogandosi su come siano possibili gli oggetti della nostra esperienza del mondo in quanto tipicità essenziali. In questo modo, da un punto di vista fenomenologico, l’indagine filosofica perviene a comprendere i fenomeni che verifichiamo nella nostra esperienza del mondo per come vengono colti, nella loro essenza, dalla nostra coscienza, che risulta in grado di dare conto di tali fenomeni grazie alla relazione fra soggetto e oggetto della conoscenza che la coscienza stessa stabilisce in chiave intenzionale. È perciò la natura intenzionata della coscienza umana, che si trova a fondamento della fenomenologia husserliana, che consente alla filosofia come scienza rigorosa di cogliere le tipicità essenziali della realtà in cui viviamo. Ed è in questo senso che Weber può dirsi risentire dell’influenza della riflessione filosofica di Husserl. Nella sua idea di scienza, così come nella sua ricerca sulla società moderna, in cui getta le basi della sociologia comprendente, Weber riconduce l’azione sociale a una teoria dei tipi ideali che non vanno intesi come costrutti puramente astratti, ma come rappresentazioni stilizzate dell’agire, il cui senso è definito in rapporto all’intenzionalità che il soggetto agente vi conferisce, in relazione all’atteggiamento dell’altro. Qui, nell’agire soggettivamente intenzionato ma – ad un tempo – rivolto all’altro, si ritrova la matrice fenomenologia della sociologia weberiana. Con ciò, il significato di ogni forma di azione, inclusa l’impresa scientifica, è riconducibile a un tipo ideale, che vale a determinare il senso stesso dell’agire, in rapporto all’intenzionalità che vi attribuisce il soggetto agente rispetto a coloro verso i quali la sua azione è rivolta.
3. La scienza come forma di azione razionale
Rispetto ai tipi ideali dell’azione sociale individuati e classificati da Weber (agire razionale, rispetto allo scopo o al valore, agire tradizionale e agire affettivo o carismatico), la scienza – ovvero l’impresa conoscitiva esercitata dallo scienziato nella società – è riconducibile all’agire razionale. Scopo dello scienziato è, nello specifico, individuare nei comportamenti sociali rapporti di causalità o interpretazioni comprensive che siano caratterizzati da una certa capacità di generalizzazione. In tal senso, l’agire dello scienziato è orientato al perseguimento di un fine: la conoscenza scientifica. Però si tratta di un fine particolare, poiché si fonda su un giudizio di valore che concerne il grado di veridicità (o attendibilità) che è possibile riscontrare nei risultati dell’attività di ricerca in base a criteri o argomenti ritenuti validi in quel dato momento dalla comunità scientifica di riferimento. Con ciò, secondo Weber, l’azione scientifica si configura, al tempo stesso, come combinazione di un’azione razionale in rapporto a un fine e di un’azione razionale in rapporto a un valore. Ed è proprio questa ineliminabile tensione fra la valenza procedurale quella normativa dell’azione dello scienziato che costituisce l’aspetto caratterizzante dell’impresa scientifica. In tal senso, la scienza è, da un lato, un aspetto fondamentale del processo di razionalizzazione tipico della società moderna, grazie al quale si è affermato un metodo che consente di stabilire se un certo risultato può considerarsi oggettivo, ossia coerente esito di un insieme di procedimenti riconosciuti attendibili da una data comunità scientifica, che a sua volta ha costruito, validato e consolidato quelle stesse procedure, conferendo loro oggettività. In questo senso, appunto, la scienza è agire razionale rispetto al fine. Ma, dall’altro lato, essa è anche subordinata alle domande con le quali il ricercatore interroga la realtà, che variano con l’evolversi della società e dei suoi sistemi di valore, così come con il mutare della curiosità di chi compie indagini scientifiche, rispetto a ciò che si ritiene saliente ai fini della ricerca. In questo senso, perciò, la scienza è inevitabilmente anche soggetta a scelte di valore. Ciò che di fatto rende l’impresa scientifica perennemente incompiuta, perché assumendo che il divenire umano non possa mai giungere alla sua fine, o avere cognizione della sua fine, le domande dalle quali prende le mosse l’impresa scientifica non possono che considerarsi in continuo divenire. Così come una pari incompiutezza dell’impresa scientifica non può che derivare dalla parzialità dei risultati che essa è in grado volta per volta di raggiungere, poiché parziali, possibili e probabili – come dice Weber – sono sempre le relazioni causali o le interpretazioni comprensive alle quali lo scienziato approda con la sua ricerca e perché gli esiti della ricerca scientifica non possono mai darsi acquisiti in via definitiva, essendo costantemente esposti alla negazione (con Popper, si direbbe alla “falsificazione”) da parte di ritrovamenti ancora più avanzati.
Da ciò deriva quella che per Weber è la solitudine dello scienziato, al tempo stesso condizione di vita dello studioso e metafora esistenziale dell’uomo moderno, costretto a convivere con l’impossibilità di conoscere il mondo se non solo in parte, oltre che in virtù di un interesse conoscitivo arbitrariamente selezionato a partire da una scelta di valore. Così, se l’impresa scientifica moderna si contraddistingue come mai era accaduto in passato per il fatto di favorire un’accentuata specializzazione dei saperi, ad un tempo essa è costretta a riconoscere la provvisorietà, quando non addirittura la fallibilità dei suoi risultati, esposti come sono al superamento da parte di nuove scoperte.
4. Giudizio di valore vs rapporto ai valori
Ma se la scienza è così parziale e fragile nel suo concreto divenire, com’è possibile esista una scienza comunque oggettiva, ossia non falsata da giudizi di valore, dal momento che l’impresa scientifica – come si è detto – dipende dagli atti creativi orientati al valore dei singoli studiosi? A questa domanda, che va al cuore della riflessione epistemologica weberiana, non soltanto rispetto al significato attribuito alla scienza moderna ma anche rispetto alla personale esperienza intellettuale e di ricerca del sociologo tedesco, Weber risponde introducendo la distinzione fra giudizio di valore (werturteil) e rapporto ai valori (wertbeziehung). I giudizi di valore sono personali e soggettivi, oltre che insindacabili: formuliamo giudizi di valore affermando che una cosa sia buona o giusta, ovvero facendo affermazioni di ordine morale che riteniamo vitali o importanti per noi. Il rapporto ai valori, viceversa, rappresenta un processo di selezione o organizzazione oggettiva del mondo che ci circonda, finalizzato a scegliere e indicare consapevolmente l’oggetto e la prospettiva di indagine che adotta per rispondere a un interrogativo scientifico. In questo senso, il rapporto ai valori ha a che fare con una tipica operazione di ricerca: la selezione dei dati di fatto e la formalizzazione dei concetti dei quali lo studioso si serve nell’esercitare l’impresa scientifica. E, secondo Weber, si tratta di un’operazione indispensabile, che da un punto di vista sia trascendentale sia epistemologico serve a qualificare il senso dell’agire dello studioso. In una prospettiva trascendentale, di influenze evidentemente neo-kantiane, che Weber riprende da Rickert (come rileva Raymond Aron, nel suo ritratto su Weber ne Le tappe del pensiero sociologico, p. 462, nota 11), l’idea è che l’impresa scientifica sia il prodotto di un’elaborazione o una costruzione umana, grazie alla quale la materia informe della realtà diviene alla fine comprensibile. Negando gli assunti naturalistici del positivismo, e di conseguenza un’idea di scienza come scoperta e rispecchiamento di una realtà già di per sé esistente, Weber riconosce come la scienza sia una forma di sapere fra le altre, che però, a differenza della teologia, è apertamente responsabile delle sue scelte. In una prospettiva epistemologica, se la salienza dei risultati scientifici non può che dipendere dall’importanza delle domande che si pone lo scienziato, rispetto a ciò che qualifica la sua attività di ricerca in rapporto alle passioni che esso avverte in quanto uomo storicamente determinato, è tuttavia nel distacco oggettivo delle procedure che egli pone in essere per dare risposte agli interrogativi dai quali prende le mosse che si rintraccia la validità universalmente riconosciuta della sua pratica scientifica. Ed è qui che si ritrova il significato appropriato da attribuire al concetto weberiano di wertfrei, condizione caratteristica del sapere scientifico che un’imprecisa vulgata anglosassone ha per lungo tempo impropriamente tradotto come “avalutatività” (moral neutrality). In realtà, wertfrei starebbe per “autonomia”, non libertà, dai valori: la scienza, in tal senso, sarebbe “autonoma” – e non libera – dai valori, proprio perché le scelte di valore, assumendo la forma del rapporto ai valori, sarebbero consapevoli e dichiarate, essendo proceduralmente trattate dal ricercatore in maniera distaccata e obiettiva (sine ira ac studio).
Ne deriva una concezione della scienza che è, al tempo stesso, consapevole della sua dimensione trascendentale di costruzione del mondo e verificabile (falsificabile) nella sua dimensione epistemologica, come forma di conoscenza universalmente valida, ovvero riconoscibile (riproducibile) da parte di ogni membro della comunità scientifica. Laddove tale verificabilità non si esaurisce esclusivamente nel riconoscimento dell’esistenza di un metodo scientifico, ma riguarda anche la consapevolezza della sostanziale parzialità delle selezioni del ricercatore, dalle quali l’impresa scientifica prende le mosse. In tal senso, la teoria della scienza weberiana non dispone solamente di un impianto metodologico della oggettività scientifica, ma anche di una teoria dell’osservatore che consente di relativizzare i risultati della ricerca rispetto alla prospettiva dalla quale sono stati prodotti.
È proprio in questo che, secondo Weber, consiste la forza della razionalità scientifica, che potremmo sintetizzare nel suo essere azione razionale rivolta allo scopo della conoscenza e – al tempo stesso – controllata rispetto ai valori dai quali prende le mosse nell’effettiva pratica di ricerca, dove questi aspetti rinviano alle condizioni procedurali e trascendentali che ne determinano in ultima istanza la validità.
5. L’attualità della lezione weberiana
Weber viene così affermando una concezione della scienza che risolve il nodo esistenziale dell’uomo moderno (se Dio è morto, in quale nuova forma possiamo conoscere il mondo?) senza abbandonarsi né al pregiudizio razionalistico della scienza esatta né a una impressionistica, quando non addirittura nichilista, filosofia della vita. E a partire da questa visione, individua una via di uscita dalla crisi della cultura e della filosofia europea del suo tempo che riesce a sottrarsi, da un lato, al pericolo dell’indeterminatezza generato dal politeismo dei valori e, dall’altro, ai rischi della “gabbia di acciaio” nella quale la pervasiva razionalizzazione dei processi di conoscenza diventa routine priva di senso.
Oggi la lezione di Weber sulla scienza può risultare di estrema utilità nel restituisci il senso di un’impresa scientifica che, nella società individualizzata di massa, corre sempre più il rischio di essere intesa, all’interno di una contraddittoria polarità, come verità assoluta o come semplice opinione. La recente esperienza della pandemia da Covid-19 ne rappresenta un esempio evidente. Vuoi per il proliferare della presenza di virologi, epidemiologi, infettivologi, medici e biologi su media di varia natura, dalla carta stampata alla televisione, ai social media, le cui valutazioni spesso divergono significativamente. Vuoi per la tutt’altro che marginale diffusione di un atteggiamento scettico, che dalle misure precauzionali ai vaccini, tende a sottovalutare, quando non addirittura a negare, sia la pericolosità del virus sia l’utilità delle cure atte a contrastarlo. Tutto ciò ha la conseguenza, per l’appunto, di giustificare due atteggiamenti alternativi, ma parimenti presenti, e per certi versi complementari, nei confronti del sapere scientifico. Un atteggiamento che intende la scienza come depositaria di verità incontrovertibili e assolute, anche nel caso in cui, come per il Covid-19, si è in presenza di un fenomeno del tutto inedito (che tuttavia non ammette la possibilità di errore). E un atteggiamento che, viceversa, tende ad assimilare le valutazioni espresse dagli esperti a semplici manifestazioni di opinione. Due atteggiamenti strettamente interdipendenti, poiché dalla delusione delle aspettative riposte nelle soluzioni provenienti dagli scienziati rischia di derivare la pericolosa convinzione che la scienza sia del tutto fallace. La lezione weberiana sul significato e il senso dell’impresa scientifica nella società moderna serve oggi a metterci in guardia dal commettere entrambi questi errori, permettendoci di ricollocare la scienza nel ruolo che le pertiene. E per i tempi che stiamo vivendo si tratta di un contributo non di poco conto.
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