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Se l’Irpef deprime l’offerta di lavoro

di Sandro Brusco

Il dibattito sulla riforma fiscale è al momento un po’ sottovoce, data l’incertezza sulla durata della legislatura e sul programma del governo che verrà. Ma la questione resta fondamentale per una politica economica che permetta al paese di riprendere a crescere. Soffermarsi dunque sull’evoluzione dell’Irpef, l’imposta sui redditi delle persone fisiche, può essere utile per fornire un minimo di prospettiva storica al dibattito.

La pressione fiscale è cresciuta in modo poderoso a partire da metà anni ’70, portandosi oltre il 40% negli anni ’90. Da allora è più o meno rimasta a quel livello, punto più o punto meno. Anche se non fu l’unica imposta a crescere, l’Irpef è stata quella che più ha contribuito all’aumento della pressione fiscale. L’anomalia di quell’aumento è che non avvenne in base a un qualche chiaro disegno di politica economica. Il grosso dell’aumento avvenne durante gli anni Ottanta tramite il fiscal drag.

Questo termine sta a indicare l’aumento di imposizione derivante dal fatto che, in un sistema progressivo, gli scaglioni di reddito su cui si applicano aliquote sempre più elevate vengono mantenuti costanti in termini nominali periodi di elevata inflazione. Il termine è oggi in disuso, dato il basso livello di inflazione che prevale da lungo tempo, ma il fenomeno fu estremamente importante allora e fornì ai politici dell’epoca una fonte di gettito che non richiedeva passaggi legislativi. Non è stato certo l’unico episodio in cui i politici italiani hanno sfruttato automatismi per evitare di compiere scelte politico-economiche rilevanti (si pensi alla riduzione della spesa per personale scolastico ottenuta sfruttando il non rinnovo dei contratti precari, o gli investimenti pubblici usati come categoria residuale) ma quello è certamente stato l’episodio più importante in relazione al sistema fiscale.

Come è cambiata dunque l’Irpef dalla sua introduzione? L’imposta ha molte dimensioni e una analisi storica esaustiva non è possibile in un articolo di giornale. Tuttavia possiamo trarre qualche idea della sua evoluzione guardando alle aliquote marginali che sono state applicate nel corso del tempo. Pur essendo solo una componendo dell’imposta l’aliquota marginale è importante poiché determina gli incentivi ad accrescere il proprio reddito. Messi in termini un po’ brutali: è difficile convincere chiunque a fare un’ora di straordinario se poi il fisco si prende una grossa percentuale del salario addizionale che ne risulta.

Poiché dall’introduzione dell’imposta a metà anni Settanta c’è stato sia un aumento del reddito reale sia un forte processo inflazionistico, proviamo a guardare cosa è successo alle aliquote marginali applicate a vari livelli percentuali del reddito pro-capite. In questo articolo mostriamo l’evoluzione fino al 2007. In un articolo successivo discuteremo ciò che è successo nel periodo successivo, guardando inoltre alle componenti addizionale dell’imposta (detrazioni, deduzioni, bonus etc.).

Consideriamo dapprima un livello di reddito pari al 50% del reddito pro-capite. Nel 1975 l’aliquota marginale applicata a tale livello di reddito (pari a 1,3 milioni di lire) era del 10%. Il livello crebbe fino al 22% nel 1990 e al 23% nel 2007. Quindi, l’aliquota marginale applicata e tale livello di reddito è più che raddoppiata.

Si osservi che questi livelli di aliquote sono probabilmente quelle più significative anche per quanto riguarda gli incentivi alla partecipazione alla forza lavoro. Infatti i non appartenenti alla forza lavoro (se si escludono studenti e pensionati) sono tipicamente persone con livello di istruzione relativamente basso. In particolare, sono principalmente le donne meno istruite che restano fuori dalla forza lavoro e l’aumento dell’IRPEF su questa classe di reddito è probabilmente una delle ragione della persistente sotto-occupazione in questa fascia demografica.

Per quanto riguarda un livello di reddito pari al 100% del reddito pro-capite l’aliquota marginale è stata pari al 13% nel 1975, al 26% nel 1990 e al 27% nel 2007. Anche in questo caso quindi l’aliquota marginale è più che raddoppiata, e il grosso dell’aumento è avvenuto negli anni Ottanta.

Guardiamo ora a un livello di reddito pari al 150% del Pil pro-capite. Su tale livello di reddito l’aliquota marginale era pari al 16% nel 1975. Crebbe fino al 33% nel 1990, ed è arrivata al 38% nel 2007. Infine, per un livello di reddito pari al 200% del Pil pro-capite l’aliquota marginale è stata pari al 22% nel 1975, al 33% nel 1990 e al 38% nel 2007.

Anche se, lo ricordiamo, questi numeri riguardano solo una componente dell’imposta il messaggio che mandano è forte e chiaro. Dalla sua introduzione l’Irpef è diventata molto più gravosa e ha assunto un ruolo importante di aumento del cuneo fiscale e disincentivo all’offerta di lavoro. Si aggiunga che nel tempo l’imposta è diventata sempre più un’imposta concentrata principalmente sui redditi da lavoro dipendente. Dal punto di vista dell’efficienza economica questo ha reso più costoso il processo di crescita occupazionale delle imprese (imprese più piccole possono meglio usufruire di rapporti di lavoro informale più al riparo del fisco) e ha probabilmente contribuito alla stagnazione della produttività totale dei fattori che in Italia ha avuto inizio a partire dagli anni Ottanta. Interventi drastici sarebbero quindi necessari ma, per ragioni che sono note, anche molto improbabili.

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Sandro Brusco
brusco@per.it

Sandro Brusco è Professore di Economia alla State University of New York at Stony Brook, dove è anche direttore del dipartimento di economia. Tra i suoi interessi di ricerca: finanza pubblica e scienza política, soprattutto federalismo fiscale e sistemi elettorali. Ha fondato e animato, con altri colleghi, il blog "Noise from Amerika". Con Alberto Bisin, Michele Boldrin, Andrea Moro e Giulio Zanella ha pubblicato il libro "Tremonti. Istruzioni per il disuso", Ancora del Mediteranneo, Napoli, 2010.

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