
09 Nov Silenzio sulla memoria. La problematica “restituzione” del Narodni Dom a Trieste
di Paolo Segatti*
Vi è una significativa distanza temporale che ci separa dagli eventi il cui ricordo il Presidente della Repubblica Italiana, Sergio Mattarella, e il Presidente della Repubblica di Slovenia, Borut Pahor, hanno voluto celebrare a Trieste il 13 luglio 2020 con l’intento di compiere un altro passo verso una definitiva riconciliazione tra le due nazioni, dopo quello compiuto nel 2010 dai tre Presidenti di Italia, di Croazia e di Slovenia. Un secolo dall’incendio del Narodni Dom (Casa della Cultura nazionale), atto finale del pogrom anti-slavo attuato da bande fasciste. 90 anni dall’esecuzione di 4 cittadini italiani di nazionalità slovena e croata condannati per atti terroristi dal Tribunale speciale fascista. Tra 60 e78 anni è l’intervallo che ci divide dalle due ondate di uccisioni e sparizioni (le foibe) e dal lungo esodo dall’Istria e dalla Dalmazia che ha espiantato “l’antica quercia dell’italianità” dell’Adriatico orientale, per dirla con le parole di Ernesto Sestan.
La presenza di lingue diverse
Qualcuno potrebbe pensare che sul confine orientale la storia non passi proprio mai. Credo che non sia proprio così. Il tempo passa sempre, perché cambiano le persone, generazione dopo generazione. Se ci guardiamo attorno con attenzione in un qualsiasi giorno, di lavoro o di festa, è evidente che la quotidianità della gente che vive in questa regione è arricchita dalla presenza di lingue diverse, a cominciare da quella slovena, libere di esprimersi in una misura impensabile anche solo mezzo secolo fa. La lingua slovena da repressa è diventata attrattiva a Trieste e a Gorizia. Aumentano le coppie miste che mandano i loro figli alle scuole con lingua slovena. Lo fanno anche famiglie di italiani che ritengono sia meglio per i loro figli apprendere un’altra lingua del territorio. Anche in Istria le scuole italiane accolgono ragazzi di famiglie miste o non italofone. Sono molti i cittadini italiani di nazionalità slovena che si sentono tanto sloveni quanto italiani, senza che questo significhi sentirsi meno sloveni. Lo stesso accade per gli italiani nell’Istria slovena, e penso anche in quella croata. Ciò che questi dati suggeriscono è che gli sloveni, come i pochi italiani rimasti in Istria dopo il grande esodo, sono probabilmente avvertiti di meno o addirittura non sono avvertiti affatto come un corpo separato. I significati attribuiti ai confini tra i vari gruppi non dipendono da una definizione solo etnica della propria identità. I confini sono valicabili senza che questo comporti l’assimilazione della minoranza nella maggioranza.
Il bisogno di riconciliarsi
Allora perché c’è bisogno ancora una volta di riconciliarsi? Non basterebbe lasciarsi il passato alle spalle, lasciando ai custodi delle memorie nazionali il compito di preservarle? Attività questa, lo dico senza alcuna ironia, benemerita perché è sempre importante coltivare le memorie del passato. Il problema semmai è che nel coltivare le memorie nazionali si riesca anche costruire una memoria del passato aperta al comune futuro europeo. Questo è ancora un problema irrisolto. Anzitutto perché l’intensità della violenza esercitata nella prima metà del secolo scorso sulle popolazioni di questo territorio è stata semplicemente mostruosa, inimmaginabile dal resto di europei occidentali. Con queste esperienze alle spalle, l’amnesia non ricuce le cicatrici, è solo segno di un trauma. Anche se il discorso pubblico dovesse ignorarle, le tengono aperte i ricordi familiari di chi ne fu coinvolto direttamente o indirettamente. Le tengono aperte il presente.
Le foibe in Slovenia e Croazia
Poche settimane fa è stato avviato il recupero di circa 240 salme, per lo più di donne e giovani, in una delle foibe nella selva di Kočevski Rog in Slovenia. Qualche mese fa furono scoperti i resti di oltre ottocento persone gettati nella foiba scoperta sopra Fiume/Rijeka in Croazia. Uccisi dai partigiani di Tito perché in gran parte ritenuti appartenere a quella categoria vasta e dai confini sfumati che nel dopoguerra veniva definita collaborazionista delle forze di occupazione tedesche e italiane quando si trattava di oppositori del regime comunista che si stava per instaurare o di prigionieri di guerra o membri di minoranze nazionali. Lodevole è l’impegno che Slovenia e Croazia mettono nel recupero e nell’onorare le vittime. Sarebbe giusto che anche l’Italia partecipasse a questo sforzo nei confronti delle tante foibe in Istria. Ricordando al contempo che anche l’Italia ha dato un contributo importante alla creazione di quelli che Martin Pollack chiama nel suo libro «paesaggi contaminati». Come fa ben vedere, il film sloveno “ Il Silenzio della Miniera” (2017) la tentazione di dimenticare, murando l’accesso alla miniera invece di recuperare ciò che resta di un essere umano, è una tentazione di ogni potere. Conoscere chi ha contaminato i paesaggi che amiamo e per quali ragioni è il primo passo verso la costruzione di memorie nazionali del passato aperte al futuro europeo sia tra i popoli che all’interno di uno stesso popolo.
Un pezzo della storia dell’Europa
Un passo importante perché significa riconoscere che la violenza esercitata sulle popolazioni dell’alto Adriatico è un capitolo di una storia ben più ampia che riguarda tutta l’Europa centro-orientale dagli inizi del ventesimo secolo al 1950. Non riguarda solo i rapporti tra Italiani, Sloveni e Croati, durante e dopo la seconda guerra mondiale come implicitamente suggerisce il discorso pubblico italiano quando se ne occupa. Riguarda il tema delle conseguenze del collasso degli imperi centrali (Austro-ungarico, Tedesco, Russo e Ottomano) e la costruzione di stati le cui classi dirigenti pensavano fossero stati nazionali, cioè omogenei culturalmente, quando in realtà nessuno di loro lo era [Omar Bartov e Eric D Weitz, The Shatterzone of Empires, Coexistence and Violence in the German, Habsburg, Russian, and Ottoman Borderlands, (A cura di) , Indiana University Press 2013] . Riguarda la catastrofica illusione che in territori plurali si potesse applicare il principio di autodeterminazione nazionale adottando per lo più il modello di stato centralista di tipo francese. Senza porsi cioè il problema che quel tipo di istituzioni rendevano difficile far convivere democrazia e società plurinazionali o plurilinguistiche. La conseguenza fu che in particolare nelle regioni di confine tra i nuovi stati le popolazioni di diversa lingua o religione che avevano più o meno convissuto pacificamente sino ad allora o furono mobilitate dall’alto o si mobilitarono loro per «proteggersi» con la violenza dal vicino di casa che si trovava nella posizione di minoranza.
I due totalitarismi poi aggravarono il conflitto mettendo a disposizione dei costruttori di nazione un potenziale di violenza e di disprezzo per la vita umana ancora più grande, come mostra il libro di T. Snyder Terre di sangue. L’Europa tra Hitler e Stalin [Il Saggiatore, Milano, 2015; l’edizione originale Bloodlands. Europe Between Hitler and Stalin era uscita per Basic Books (New York) nel 2010].
Il triangolo irredentistico
Gli eventi che hanno segnato le relazioni tra gli italiani, sloveni e croati sono dunque parte di un contesto più ampio che però non viene mai o raramente menzionato dai media nazionali. È un errore, perché parlarne qualche volta aiuterebbe l’italiano di Milano, di Roma o di Palermo a comprendere quali possono essere le conseguenze del vivere in un contesto plurale. Cosa che invece le persone che vivono in questo lembo di territorio non ignorano. Ernest Gellner, ebreo di Praga e professore ad Oxford, scrisse negli anni ’90 con crudo realismo che in Europa centro-orientale la costruzione degli stati nazionali nel ‘900 ha imposto alle persone la scelta di lasciarsi assimilare o di venire espulsi o di venire uccisi ( E, Gellner, Conditions of liberty: civil society and its rivals, London 1994).
Per definire il meccanismo che genera opzioni estreme, impossibili tutte da scegliere, uno studioso americano (R. Brubaker, Nationalism Reframed , Nationhood and the National Question in the New Europe, Cambridge University Press 1996) ha coniato la nozione di triangolo irredentistico, generalizzando il concetto di irredentismo usato dagli storici italiani per definire il movimento politico che sosteneva l’annessione di Trento, Trieste e l’Istria al regno di Italia. I vertici del triangolo sono la minoranza nazionale, religiosa o linguistica, lo stato di cui sono cittadini ma non ne fanno parte culturalmente e infine lo stato affine culturalmente ma di cui non sono cittadini. Le tensioni generate all’interno di un triangolo irredentistico, se non governate da istituzioni democratiche e da istituzioni sovranazionali come quello dell’Unione, sono devastanti, soprattutto per le minoranze perché il loro destino è nelle mani delle classi dirigenti dei due stati, come capitò per l’appunto alle minoranze nazionali negli anni tra le due guerre.
Gellner era molto pessimista sulla possibilità di evitare questo esito e di consolidare la democrazia in stati plurali dal punto di vista nazionale. Senza entrare nel dibattito suscitato dalla sua tesi, credo che evitare le conseguenze delle dinamiche tipiche di un triangolo irredentistico sia invece possibile (del resto quali sono le alternative?) a patto che ci siano politiche della memoria nazionale “buone” e soprattutto che si consolidino istituzioni di tutela delle minoranze che non facciano della minoranza un corpo separato.
Riconoscere la memoria dell’altro
Per politiche della memoria nazionale “buone” intendo lo sforzo di riconoscere reciprocamente la memoria dell’altro anche negli snodi storici controversi, cogliendo le opportunità date dalla comune appartenenza all’Unione. La decisione dei due Presidenti di recarsi nei luoghi dove le due memorie nazionali, slovena e Italiana, sono più distanti, cioè il cippo di Bazovica/Basovizza che ricorda i quattro giovani fucilati nel 1930 e poco più in là il monumento, simbolo di tutte le altre foibe e dell’esodo delle genti giuliane, è stato un esempio di politica della memoria saggia. I due Presidenti hanno dimostrato, con la forza simbolica che viene loro della carica che ricoprono, che è finalmente possibile onorare il punto di vita dell’altro. È giusto ricordare che il loro atto è stato reso possibile dall’incontro dei tre Presidenti di Italia, Slovenia e Croazia il 15 luglio del 2010. Però i due Presidenti hanno avuto molto coraggio perché hanno sfidato chi fa del culto delle memorie contrapposte una professione, in Italia e in Slovenia. Il cammino da fare è comunque ancora molto. La scelta infatti di stare in silenzio di fronte ai due monumenti, tenendosi per mano, è un gesto potente. Ma il silenzio rivela anche quanto sia ancora difficile parlare del passato con parole dal significato condiviso.
Superare la radicata convinzione che le memorie nazionali possono solo riconoscersi come divise, ma non possono condividere nulla del passato. Neanche la constatazione ovvia a distanza di 70 anni che hanno condiviso un radicale conflitto che ha diviso le due nazioni, non solo per cattive ragioni di supremazia nazionalistica o ideologica, ma per la buona ragione di volere vivere in uno stato che garantisca a tutti l’espressione della propria identità nazionale in condizioni di sicurezza. Condividere il passato significa anche comprendere che le memorie nazionali delle genti che vivono sul confine sono il frutto incessante di rielaborazioni e di aggiustamenti.
L’incendio del Narodni Dom
Per esempio, l’incendio del Narodni Dom e i quattro fucilati a Bazovica/Basovizza testimoniamo il fallimento delle istituzioni dello stato e dei suoi ordinamenti, prima ancora della violenza cieca del nazionalismo fascista, di fronte a persone che non volevano essere assimilate, ma forse erano disponibili a considerarsi cittadini di questo stato. Un capitolo che dovrebbe entrare nella memoria nazionale italiana, se non altro per farne tesoro al fine di sviluppare una cultura istituzionale adeguata alla sfida della società plurale che l’Italia sta affrontando. Il modo talvolta incivile in cui gli apparati dello stato italiano entrano oggi in relazione con gli immigrati non ha proprio nulla a che fare con il modo in cui tanti funzionari dello stato italiano trattavano i cosiddetti alloglotti un secolo fa, pur senza arrivare alla repressione violenta?
D’altra parte, i quattro giovani erano antifascisti nel senso ovvio che erano contro il fascismo. Ma erano anzitutto militanti di una organizzazione (Tigr , acronimo per Trst, Istra, Gorica, Rijeka) che auspicava la “redenzione” di queste terre attraverso l’annessione al Regno di Jugoslavia, non un esempio luminoso di democrazia liberale. Erano irredentisti per le stesse ragioni per le quali lo era Nazario Sauro e le migliaia di volontari giuliani che combatterono con l’esercito italiano per la “redenzione” delle loro terre, con la differenza che il Regno di Italia prima del fascismo era uno stato con un livello di democrazia superiore a quella dell’impero absburgico. Erano inoltre anche vicini al partito liberale sloveno, la cui sede era per l’appunto collocata nel Narodni Dom, incendiato dai fascisti, e che nel contesto del Regno di Jugoslavia fece parte del partito Democratico Jugoslavo, un partito che sosteneva una politica di radicale nazionalizzazione e di omogeneizzazione linguistica di tutte le componenti nazionali presenti nel Regno di Jugoslavia, slave e non slave.
Servono politiche sagge della memoria
Politiche “sagge” della memoria sono dunque necessarie. Ma non sono sufficienti se non sono sostenute da assetti istituzionali che garantiscano una effettiva tutela ai cittadini che si sentono di una nazionalità diversa dalla maggioranza, senza però che le forme giuridiche di questa facciano della minoranza un corpo separato, ostaggio dei rapporti bilaterali tra i due stati, quello di cui sono cittadini e l’altro che si definisce come la loro madre-patria. È evidente che se questo è l’assetto istituzione, è sempre presente il rischio di dinamiche del tipo di quelle che resero impossibile la democrazia tra le due guerre.
Da questo punto di vista la decisione di “restituire” l’edificio ex Narodni Dom non alle attività delle varie organizzazioni della minoranza, come previsto dalla legge di tutela della minoranza slovena del 2001/38, ma attraverso una cessione di proprietà dal demanio statale ad una fondazione nel cui consiglio siedono, tra altri, un funzionario del ministero degli interni italiano e il console generale della Repubblica di Slovenia a Trieste è un passo che rischia di andare nella direzione opposta a quella indicata dagli atti compiuti dai due Presidenti il 13 luglio. Ma in particolare rappresenta in linea di principio un ritorno a forme di tutela delle minoranze di un lontano passato, non particolarmente felice per le minoranze e per le società locali in cui vivono. Per due ragioni, per il modo in cui ci si è arrivati e per le conseguenze che questa decisione potrebbe comportare sul quadro istituzionale sul quale sono ancorati i diritti collettivi dei cittadini italiani di lingua e nazionalità slovena.
Il silenzio dei media
La storia del processo attraverso il quale si è arrivati a questa decisione da parte italiana e slovena è stato quasi totalmente ignorato dai media italiani a livello nazionale. I loro servizi si sono concentrati sugli atti simbolici compiuti dai due Presidenti e sulla restituzione di un edificio dato alle fiamme dai fascisti un secolo fa. Servizi puntuali certamente. Ma per lo più hanno sorvolato sul processo in base al quale la restituzione dell’edificio alle attività della minoranza, dovuta in base alla legge del 2001/38 si è trasformata in una cessione di proprietà che richiederà una modifica sostanziale della stessa legge. Ma andiamo con ordine.
Il primo passo del protocollo di intesa formato al cospetto dei due presidenti viene compiuto presumibilmente nell’autunno del 2017 con la richiesta da parte del governo italiano di allora (presidente Gentiloni, ministro degli Esteri Alfano) alla Slovenia di un voto di sostegno alla candidatura di Milano come sede dell’Agenzia del Farmaco non più a Londra a causa della Brexit. Il governo sloveno condizionò il suo appoggio all’Italia all’impegno da parte del governo italiano a restituire l’edificio ex Narodni Dom, ora sede della Facoltà di Lingue dell’Università di Trieste, alla “minoranza slovena”. Non è chiaro quando si realizzò l’accordo finale sulla cessione di proprietà dell’edificio e sulla presenza delle istituzioni dei due stati nella sua gestione e potenzialmente sulle politiche che riguardano la minoranza. Certe ad oggi sono due cose.
Certo è che il governo italiano di centro-sinistra non si oppose alla proposta slovena di trasformare uno scambio diplomatico in una modifica sostanziale di aspetti importanti del proprio assetto istituzionale sul quale poggia la tutela della minoranza. Poteva rispondere alla proposta di uno stato amico con una controproposta diplomatica, mantenendo cioè la questione del voto sloveno sul piano dei rapporti tra stati. Il governo di centro sinistra invece ritenne che i suoi cittadini di nazionalità slovena potessero divenire merce di scambio, evidentemente sulla base della premessa che fossero già di fatto un corpo separato. Per altro senza informare i propri cittadini di cosa stesse avvenendo. Forse chi trattò per l’Italia non era consapevole delle implicazioni. Non sarebbe la prima volta. Altrettanto certo è che l’operazione vide sin dall’inizio un attento coinvolgimento della Lega, attraverso il suo esponente regionale Fedriga che auspicò già nel gennaio del 2018 il riconoscimento di “un seggio riservato alla minoranza e sottratto alla normale dinamica politica”. Un provvedimento che, se fosse attuato, avrebbe il potere di politicizzare in chiave etnica l’appartenenza nazionale dei cittadini italiani di nazionalità slovena, cosa che non è mai avvenuto sinora.
La tutela delle minoranze
Se tutto ciò venisse realizzato rappresenterebbe un significativo scostamento dalle forme di tutela della minoranza slovena in Italia. Gli ordinamenti si sono sviluppati nel dopoguerra in modo tortuoso. Inizialmente sulla spinta iniziale del governo militare alleato. Poi ritardate da considerazioni condizionate dalla guerra fredda. In seguito sono lentamente approdate ad una tutela che copre in modo uniforme tutto il territorio di insediamento della minoranza, concretizzata nella legge n. 38 del 2001. Questa si ispira chiaramente ad un principio diverso della tutela della minoranza sudtirolese. Infatti nel caso degli sloveni l’accesso ai diritti collettivi non è condizionato da una qualche dichiarazione di appartenenza alla minoranza, la cui entità numerica per altro è possibile solo stimare dato che non c’è un censimento come in Sud Tirolo. Con felice espressione il relatore sen. Volcič la definì una fontana collocata in una piazza pubblica alla quale chiunque voglia dissetarsi può dissetarsi senza che nessuno sia esso un professionista della memoria nazionale o un funzionario del governo della vicina repubblica possa sindacare né sul grado di slovenità della persona che ha sete né sul tasso di slovenità dell’acqua.
Infine la legge non parla di seggio garantito ma afferma la necessità di favorire la rappresentanza politica della minoranza in linea con la giurisprudenza della Coorte. Infine si parla della restituzione del Narodni Dom solo nel titolo dell’articolo 19, affermando espressamente che in quell’edificio avrebbero dovuto trovare più spazio le attività organizzate della minoranza senza per questo eliminare la presenza della Facoltà di Lingue dell’ateneo triestino. Ora il protocollo di intesa firmato il 13 luglio al cospetto dei due Presidenti prevede invece la cessione di proprietà ad una fondazione costituita dalle due organizzazioni che raggruppano varie associazioni slovene e presieduta anche da un rappresentante del ministero Italiano degli interni e dal console della Repubblica di Slovenia. Non si definiscono le attività che la fondazione dovrà svolgere. Né si definisce in che modo si rispetteranno i principi di pluralismo affermati dalla legge. Certo è che l’attuazione del protocollo di intesa richiede che venga emendata la legge di tutela. Vedremo cosa accadrà. Probabile che si apra un lungo contenzioso che consenta ai vari professionisti delle memorie divise di sopravvivere per altri decenni.
Il ritorno del confine simbolico
In ogni caso, il punto fondamentale è che il protocollo di intesa sembra partire da una premessa culturale secondo la quale la tutela dei diritti alla diversità non dipende solo ed esclusivamente dall’ordinamento italiano, ma in linea di principio da accordi con la vicina Repubblica. Si torna alla visione della minoranza come enclave il cui stato di salute dipende dai rapporti tra i due stati. È il principio del triangolo irredentistico di cui abbiamo parlato poco sopra che sia riaffaccia sul golfo di Trieste. La cui conseguenza inevitabile è il ritorno di un confine simbolico che separi entro la società triestina due blocchi di popolazione distinti non sulla base dei loro valori culturali o politici, ma sulla base della lingua che parlano o della nazionalità alla quale sentono di appartenere. In breve ciò che si rischia è una ri-nazionalizzazione della società locale, proprio quando questa pareva averla superata.
Non suscita stupore che questa soluzione sia quella auspicata dalle destre triestine. La separazione etnica tra Italiani e sloveni e la sua politicizzazione sono da sempre uno dei suoi obiettivi, sin dal secondo dopoguerra. Oggi riflette la visione che la Lega ha del rapporto tra stato e nazione. Difficile dire se i suoi dirigenti ne siano consapevoli o meno, ma è la visione che Orban ha di chi è magiaro e di quali sono i confini “veri” dell’Ungheria. È per altro la visione che hanno significativamente diverse chiese cattoliche degli stati dell’Europa centro- orientale. Pare essere anche la convinzione che porta esponenti importanti della chiesa locale triestina a plaudire alla restituzione del Narodni Dom fatta nei termini che abbiamo descritto, come «un segno del mutamento culturale e politico insieme del tessuto multietnico di Trieste e della volontà di dare “a ciascuno il suo”, (….) Agli Slavi ciò che è slavo e agli Italiani ciò che è italiano» [(don) Malnati, Il Piccolo 1 giugno 2020]. Le parole citate sono del vescovo Antonio Santin. Furono pronunciate nel momento più buio del conflitto nazionale e ideologico. Testimoniano che in quel momento l’unica cosa da salvaguardare era almeno riconoscersi come diversi, anche se si condivideva la stessa fede. Riproporle nel 2020 come se indicassero il futuro da costruire, acquistano un significato diverso. Di inutile divisione, preoccupante soprattutto tra chi professa la stessa fede.
Il Pd, un partito reticente
In tutta questa vicenda è bene stendere un velo di pietà sul centro sinistra italiano e sul suo maggiore partito, il Pd. In questa vicenda, è apparso un partito reticente, indifferente al merito del problema e, al fondo, privo di consistenza intellettuale nel rispetto dei principi che pure i suoi dirigenti dicono di proclamare. Si noti su un problema che palesemente non è secondario in Europa centro-orientale. Altrettanto pietoso è il velo da stendere sull’opinione pubblica italiana, almeno quella che dà vita al discorso pubblico, il cui interesse per il confine orientale si accende o si spegne solo nella misura in cui si possa affermare che gli italiani, in particolare quelli del confine orientale, sono stati fascisti. Sacrosanta battaglia quella di ribadirlo. Ma un po’ di attenzione a quali istituzioni rendono possibile avere democrazia e rispetto della diversità in mondo in cui ritornano i nazionalismi etnici non guasterebbe. Un viaggio a Sezana sarebbe utile, se proprio non si riesce ad andare a Budapest o a Varsavia.
Alla fine chi, sloveno o italiano che sia, ha creduto che si potessero finalmente consolidare istituzioni democratiche in grado di proteggere la diversità in un quadro di integrazione civica, una soluzione all’altezza dell’Europa cioè, è stato lasciato solo. Non sarebbe la prima volta.
*Articolo apparso su Il Regno Attualità n.16 il 15 settembre 2020
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