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Spillover, pipistrelli, proteine animali: ecco perché serve la “Terza Agricoltura”

di Sergio Salvi

 

L’avvento della pandemia di Covid-19 ha prodotto, almeno nella fase iniziale, un disorientamento generale nella nostra società ormai da lungo tempo non più abituata ad avere a che fare con una tipologia di evento che, cronologicamente, trova il suo più vicino precedente nella pandemia d’influenza spagnola del biennio 1918-1920.

Tra le molte cause d’incertezza generate dal nuovo coronavirus Sars-Cov-2, ha ricoperto un posto di rilievo l’approccio del grande pubblico all’informazione scientifica, non solo sul piano epidemiologico-sanitario e medico-terapeutico, ma anche su quello prettamente biologico. In un paese che non brilla certo per cultura scientifica diffusa, spiegare ai cittadini cos’è un virus, come si riproduce e si diffonde, quali sintomi provoca e che evoluzione può avere, è stato – e continuerà ancora ad essere – un grande esercizio di comunicazione e di apprendimento per tutti. Dai più disparati pareri espressi da virologi ed epidemiologi – che non immaginavamo essere così numerosi prima della pandemia – e fino alle fake news di tutti i generi serpeggianti nei social networks, sul coronavirus ne sono state dette e sentite di tutti i tipi.

 

Lo spillover dal pipistrello all’uomo

Complottismo permettendo, tra le nozioni corrette che sono state recepite con maggiore successo dal pubblico vi è sicuramente quella dell’origine “naturale” del virus e, con essa, la conferma che l’adagio “naturale uguale buono” – già utilizzato dal divulgatore Silvano Fuso come titolo di un suo libro di qualche anno fa – suona spesso falso e truffaldino.

Sul banco degli imputati è stato portato il pipistrello, ad oggi l’organismo vivente che più di ogni altro serba, per sua natura ed attitudine, un coronavirus il cui genoma a Rna è simile per il 96% a quello del “parente stretto” che ha colpito l’essere umano. Una similitudine che ha chiamato in causa la ben nota ipotesi del “salto di specie” virale – il famigerato spillover che è anche il titolo di un ormai celebre libro di David Quammen – per spiegare da dove viene, e perché, la pandemia di Covid-19. Parafrasando lo stesso Quammen, l’epidemia potrebbe anche essere iniziata da un pipistrello in una grotta, ma è stata l’attività umana a scatenarla. In altre parole, ce la siamo cercata.

Per capirne di più, una lettura illuminante – almeno per chi conosce un po’ d’inglese – è quella del libro “Bats and viruses: a new frontier of emerging infectious diseases” (John Wiley & Sons, 2015), alcuni capitoli del quale sono scaricabili gratuitamente dal sito dell’editore.

Il capitolo 10, intitolato “Anthropogenic epidemics: the ecology of bat‐borne viruses and our role in their emergence”, mostra chiaramente, con alcuni esempi di salto di specie verificatisi nel corso degli ultimi venti anni, come le attività antropiche siano in grado di “guidare” letteralmente lo spillover dal pipistrello all’uomo passando per un ospite animale intermedio.

Nella fattispecie, i casi riportati sono quelli dell’epidemia di Hendra in Australia (1994), Nipah in Malesia (1998), Sars-Cov in Cina (2003) ed Ebola in Guinea (2014). Protagonisti di queste epidemie sono altrettanti virus che hanno in alcune specie di pipistrelli i propri ospiti-serbatoio naturali. Qui vale la pena ricordare che nel mondo ci sono più di 1200 specie di pipistrelli, il che fa di questi animali il secondo gruppo tassonomico più ricco di specie tra i mammiferi dopo quello dei roditori, rappresentando un quinto di tutta la diversità mammifera. Inoltre, i pipistrelli sono presenti in tutti i continenti (ad esclusione dell’Antartide) e vivono in qualsiasi ambiente che sia occupato anche dall’uomo. In genere i pipistrelli evitano il contatto con le persone e quando questo avviene è per lo più incidentale, tranne nei casi in cui è proprio l’uomo, con le sue attività, ad invadere il campo.

 

Le attività umane che favoriscono il salto di specie

Tra le attività umane, quattro sono quelle che contribuiscono maggiormente a guidare il salto di specie virale: l’espansione/intensificazione agricola o zootecnica (come nel caso del virus Nipah), l’urbanizzazione (Hendra), il commercio di animali selvatici (Sars-Cov, e molto probabilmente anche Sars-Cov-2) e la caccia agli animali selvatici (Ebola).

Senza entrare nel dettaglio dei quattro esempi di epidemie human-driven sopra elencati, intendiamo qui porre in evidenza come, in almeno tre casi, alla base dello spillover vi sia stato l’approvvigionamento di proteine animali da parte dell’uomo: l’epidemia di Nipah ebbe origine in un grande allevamento suino all’aperto, quella di Sars in uno degli ormai famigerati wet markets, mentre per Ebola si trattò del consumo di cacciagione a base di scimmie.

 

La domanda crescente di proteine animali in Asia e in Africa

In tutti e tre i casi abbiamo a che fare con la questione della domanda di proteine animali che caratterizza da sempre i Paesi in via di sviluppo di Asia e Africa. Una domanda che è cresciuta in modo drammatico negli ultimi decenni, per soddisfare la quale la “caccia a tutto ciò che si muove” rappresenta un must negli strati più disagiati di una larga fetta della popolazione dei due continenti. Ma è anche una domanda che può assumere, come nel caso cinese, i connotati di una moda alimentare associata all’ostentazione di uno status ritenuto di maggior benessere sociale.

Se da un lato basterebbe portare al chiuso gli allevamenti suini intensivi, così da evitare che i maiali tenuti all’aperto entrino in contatto con le “piogge” di deiezioni di pipistrello, ben più problematici da gestire sono il commercio e soprattutto la caccia degli animali selvatici, per i quali le soluzioni passanti per i divieti tout court da salotto ambientalista sono ritenute dagli esperti non solo dozzinali e sostanzialmente impraticabili, ma addirittura in grado di aggravare il problema a causa dell’inevitabile incentivazione di attività e pratiche clandestine.

In definitiva, il rischio spillover può essere inserito nella lista delle giustificazioni che spingono verso la ricerca di fonti proteiche alternative e sostenibili, collocando i wet markets e il bushmeat hunting su un piano analogo a quello occupato dagli allevamenti intensivi, accusati di contribuire all’alterazione del clima a causa delle emissioni di gas serra (soprattutto metano) e di costituire, in alcuni casi, degli incubatori di potenziali epidemie.

Viene allora da chiedersi se le alghe, gli insetti, le proteine microbiche e la carne in vitro – ossia le soluzioni al problema della domanda proteica globale promosse da certo ambientalismo – possano essere proposte alle popolazioni asiatiche e africane quali fonti proteiche alternative e sostenibili alla loro portata.

 

Che cosa proporre alle popolazioni locali?

Personalmente trovo ridicolo proporre opzioni alimentari che sono state proprio quelle stesse popolazioni a farci conoscere. Da tempo immemore, infatti, la gente che vive sulle sponde del lago Ciad, in Africa, sopravvive consumando la microalga spirulina (Arthrospira platensis) sotto forma di un preparato iperproteico noto come dihé, così come gli insetti rientrano da altrettanto tempo tra le specialità culinarie asiatiche (sempre in accordo alla filosofia del “mangiare tutto ciò che si muove”). Anche per queste popolazioni, riuscire a disporre di una bistecca di manzo o di un piatto di selvaggina è tutta un’altra storia.

Qualcuno propone di affrontare il problema dei wet markets ragionando in termini di allevamenti controllati e certificati dallo stato e di condizioni igieniche migliorate. Potrebbe essere una soluzione, mentre più problematica appare la gestione del bushmeat hunting: vietare di cacciare le scimmie o altri animali selvatici è certamente auspicabile, ma va trovato il modo di garantire una fornitura alternativa di proteine, incentivando, neanche a farlo apposta, l’allevamento di altri animali. Detto in altre parole, dagli allevamenti non si scappa tanto facilmente.

Per quanto riguarda poi le soluzioni biotech, come le proteine batteriche prodotte nei fermentatori o la carne artificiale coltivata in laboratorio, la cosa è del tutto improponibile in Paesi in cui il divario tecnologico è abissale rispetto a chi certe tecnologie le ha inventate.

 

Esiste un’alternativa alla deforestazione?

L’impatto che la soddisfazione della domanda di proteine animali esercita sull’aumento del rischio di spillover sembrerebbe mettere in secondo piano il ruolo svolto in tal senso dall’espansione delle aree agricole passante per la deforestazione. In realtà, come mostrano anche gli studi più recenti pubblicati sull’argomento, la frammentazione degli ecosistemi forestali provocata dalla deforestazione, che crea numerose sacche di foresta circondate da aree occupate dalle attività agricole, aumenta considerevolmente la frequenza dei contatti tra gli animali selvatici e l’uomo e, con essa, la probabilità che quest’ultimo possa contrarre delle zoonosi.

Una possibile alternativa alla deforestazione esiste ed è quella che mira a potenziare le rese agricole, cercando allo stesso tempo di ridurre al minimo l’espansione delle superfici dedicate, attraverso l’impiego delle biotecnologie agrarie; un’alternativa che, tuttavia, necessita di una convergenza verso una nuova sintesi culturale capace di superare i vecchi schemi ideologici e mentali che contrappongono, ancora oggi, gli ambientalisti “duri e puri” agli ultras delle biotecnologie.

 

Per un ambientalismo biotecnologico

C’è bisogno, in altre parole, di un “ambientalismo biotecnologico”, un movimento di pensiero e azione concreta finalizzato a trovare un punto di congiunzione tra la tutela dell’ambiente e il miglioramento biotecnologico delle colture, con il triplice obiettivo di aumentare la produttività agricola, conservare gli ecosistemi e – come ormai dovrebbe averci insegnato la pandemia di Covid-19 – prevenire le zoonosi da spillover.

Il primo obiettivo, l’aumento della produttività agricola, se perseguito migliorando contestualmente anche il profilo qualitativo dell’apporto proteico vegetale, può contribuire a soddisfare il fabbisogno proteico riducendo l’approvvigionamento di proteine animali e, con esso, anche il rischio di futuri spillover.

In merito alla maggiore produttività, appare evidente come certe pratiche agricole – per quanto benedette ufficialmente da organizzazioni internazionali come la Fao – non possano rappresentare la soluzione del problema alimentare mondiale. Su tutte l’agricoltura biologica, che con rese dimezzate rispetto alle pratiche agricole convenzionali (ma anche quest’ultime non possono continuare a trovare ulteriore giustificazione, se non nell’ottica di un balzo in avanti di natura innovativa) non può dirsi amica dell’ambiente se non nei contesti di nicchia che l’hanno vista nascere e nei quali, ragionevolmente, essa dovrebbe rimanere confinata.

Pensare di aumentare la produzione mondiale di cibo espandendo l’agricoltura biologica significa accettare – checché se ne dica – di deforestare per ricavare superfici da destinare allo scopo. Analogamente, pensare di espandere ulteriormente l’agricoltura convenzionale non può che peggiorare i danni già fatti (basterà qui ricordare lo scempio ai danni dell’Amazzonia perpetrato da un grande paese produttore agricolo come il Brasile).

 

Progredire verso la “Terza Agricoltura”

In definitiva, si dovrebbe prendere atto che sia la convenzionale sia la biologica sono due forme di agricoltura ormai superate.

La sfida è dunque quella di progredire – più in generale – verso una “terza agricoltura”, la quale non può che integrare le varie branche dell’innovazione applicata al settore: le biotecnologie agrarie, l’agricoltura di precisione, finanche l’asettica “agricoltura verticale”. Un’innovazione che tuttavia, per poter procedere, deve ricevere concretamente il riconoscimento e il sostegno da parte della politica, senza i quali essa è destinata a rimanere poco più che uno sfoggio accademico.

 

Sergio Salvi
salvi@per.it

Biologo libero professionista, già ricercatore in genetica, è biografo del genetista agrario Nazareno Strampelli e cultore di storia agroalimentare. Si dedica alla divulgazione scientifica su temi d’interesse storico e di attualità. È socio corrispondente della Deputazione di Storia Patria per le Marche. Ha svolto attività di ricerca in genetica prevalentemente nel settore agroalimentare, lavorando presso enti pubblici e privati.

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