
16 Gen Statalismo e populismo non sono la soluzione
di Claudia Mancina
E’ la stagione del pentimento per la sinistra.
I primi sono stati gli inglesi, che per meglio pentirsi di Blair, che aveva il torto di aver vinto tre mandati elettorali, si sono rivolti a Corbyn, che li ha portati ad una sconfitta memorabile per non aver saputo decidere in tre anni e mezzo che cosa fare della Brexit, e per avere scelto una linea di estrema sinistra.
Poi è stata l’ora dei democratici americani, che hanno riscoperto il socialismo più statalista e rischiano di far vincere Trump in carrozza, così che Obama ha dovuto intervenire per cercare di farli rinsavire.
Da più di un anno il Pd non fa che pentirsi: di aver cercato di riformare il mercato del lavoro, di avere coltivato la vocazione maggioritaria, di avere avuto una forte leadership, di avere tentato di riformare la Costituzione. Naturalmente per tutto questo c’è un colpevole designato, Renzi.
Il neoliberismo? È un luogo comune
Ma non basta. Ci viene detto che dobbiamo pentirci di avere tradito le radici della sinistra, che dobbiamo cospargerci il capo di cenere per avere perso la connessione sentimentale con il nostro popolo. Segue il luogo comune più diffuso del momento: siamo stati subalterni alla cultura neoliberale, o, più volgarmente, al neoliberismo, ed è stato questo cedimento ad aprire la strada al populismo.
Questo luogo comune è in realtà infarcito di semplificazioni prive di argomenti. Intanto, vorrei che qualcuno mi spiegasse che cos’è il neoliberismo. Se per neoliberismo si intende – e mi pare l’unico senso possibile – la tesi che il mercato si autoregoli e non abbia bisogno di regole pubbliche, non mi pare che nessuno sostenga o abbia sostenuto questa tesi e certamente nessuno in qualunque sinistra in qualunque parte del mondo. In verità non lo sostengono neppure i liberali. Il neoliberismo è un mito, un comodo espediente intellettuale per non affrontare i problemi reali.
La sinistra non è il vecchio statalismo
Poi vorrei che qualcuno mi spiegasse qual è l’identità della sinistra. Come ha detto Blair in un suo importante discorso dopo la sconfitta laburista, abbiamo bisogno di una nuova agenda per la politica progressista. Una politica per il futuro, radicale ma moderna. Cioè, per esser chiari: non ritornare alla Terza via, ma tanto meno tornare al vecchio statalismo, al programma “tax and spend” degli anni 60 e 70.
Una nuova agenda che faccia i conti con la rivoluzione tecnologica, che non è meno importante e non ha minor impatto sociale di quella rivoluzione industriale da cui è nato il movimento operaio e la sinistra politica nelle sue varie declinazioni.
Ci viene invece detto che dobbiamo tornare a essere una vera sinistra, cioè precisamente tornare al tradizionale impianto statalista. Come se fosse ovvio che la sinistra è e sarà sempre quella; e chi non la pensa così, è, guarda caso, di destra, cioè ha ceduto al neoliberismo (vedi sopra).
Ma che cos’è la sinistra? Non è qualcosa che sta scritto nelle cose e che deve solo essere decrittato. E’ qualcosa che deve essere costruito.
La sinistra non è cambiata abbastanza
In ogni fase di trasformazione sociale e politica, la sinistra ha costruito la sua identità e la sua base sociale attraverso una evoluzione culturale prima ancora che politica. E’ sulla trasformazione in atto oggi che anzitutto dobbiamo interrogarci e discutere mettendo a confronto le nostre riflessioni, senza la pretesa di parlare a nome della storia – pretesa tipica della cultura della sinistra.
Con una battuta vorrei dire: il problema della sinistra non è che si è persa, come molti dicono; ma che non è cambiata abbastanza. Che non ha saputo leggere le trasformazioni, non ne ha colto gli effetti sociali, non ha saputo costruirsi una cultura nuova e una base sociale nuova.
E’ vero che la sinistra della terza via non ha saputo governare la globalizzazione, non ha visto arrivare la crisi, e nella crisi non è riuscita a trovare una propria proposta di soluzione. E’ vero che ha perso in parte la sua base sociale, delusa e incattivita dalla crisi.
Non solo redistribuzione, bisogna produrre ricchezza
Ma concluderne che si deve tornare allo statalismo socialdemocratico (e comunista) è una strada sbagliata. Bisogna trovare una forma politica e culturale nuova, un nuovo e autonomo modo di raccontare la società, i suoi problemi, le sue opportunità. Come ha detto Gori nel suo intervento a Bologna: non possiamo pensare che la disuguaglianza si combatta soltanto con la redistribuzione. Il ruolo redistributivo dello stato resta, ma non può essere il centro della politica per la società giusta. Bisogna produrre ricchezza, cioè bisogna puntare sul lavoro e sulla crescita: la globalizzazione e lo sviluppo tecnologico che l’accompagna danno infinite opportunità in questo senso. Certo che vogliamo una società più giusta, ma questo si ottiene mettendo al centro la redistribuzione, cioè lo statalismo, oppure mettendo al centro la crescita, cioè il lavoro, la sua produttività e la sua dignità?
Nella sua relazione a Bologna Barca ha sostenuto che i problemi che abbiamo di fronte non sono effetto di cause oggettive (la globalizzazione e la difficoltà di governarla; i suoi effetti sugli apparati economici e politici; le tecnologie e i loro effetti sui contenuti e le condizioni del lavoro) ma di scelte politiche. Di scelte, per l’appunto, neoliberiste. Una volta questo sarebbe stato chiamato soggettivismo. E’ singolare che si sottovalutino a questo punto le condizioni oggettive, le trasformazioni avvenute nella società e negli apparati produttivi; la misura della crisi, nell’ambito di un grande disordine mondiale. E’ancora più singolare che non si veda la cosa più importante, il vero elefante nella stanza: che gli strumenti a disposizione della sinistra, o in generale delle istituzioni pubbliche, sono statali, mentre i problemi e i processi sono globali.
La subalternità al populismo
Da qui derivano le difficoltà. Voglio dire che potremo anche far pagare un po’ più di tasse ad Amazon, ma nessuno stato ha gli strumenti per determinare la politica di grandi soggetti transazionali. L’unica strada è quella che viene combattuta dai populisti o sovranisti: gli accordi internazionali, la creazione di strutture sovranazionali. E contemporaneamente riconoscere il bisogno di protezione e quindi il valore culturale e morale delle comunità nazionali, religiose, culturali. E’ complicato? certo. Ma non possiamo sfuggire a questa difficoltà.
E’ questo il tema che ci sta di fronte, è questo che nutre la debolezza della sinistra in tutti i paesi democratici e nutre la rabbia e il risentimento di chi si aspetterebbe dallo stato una protezione che lo stato non può più dargli. E’ su questo che si deve lavorare. C’è un problema di subalternità culturale, non al neoliberismo, ma al populismo, che sta rischiando di rendere pesantemente negativa l’esperienza di questo governo.
Dunque è vero che si deve costruire un nuovo bipolarismo, come dice Franceschini, e quindi allargare il fronte riformista. Ma questo processo non si può leggere nell’ottica dell’arco costituzionale. L’arco costituzionale è finito quando è sceso in campo Berlusconi. Da allora non c’è più l’ovvia condivisione di valori (Repubblica, Costituzione, antifascismo) tra chi si oppone alla destra. Questo significa che un’alleanza organica coi Cinque Stelle è tutt’altro che scontata, e che l’allargamento del fronte riformista va fatto a partire dal Pd e dalla sua autonomia culturale e politica. Dunque il nostro problema è lo stesso del Labour: elaborare una nuova agenda politica, a partire da una nuova lettura della società.
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