
22 Ott Tra Merkel e Lagarde, l’Ue verso una politica di bilancio strutturale?
di Michele Marchi
I nodi vengono sempre al pettine e la recrudescenza della seconda ondata epidemica sta stracciando il velo dell’ipocrisia, dei tentennamenti e degli stop and go, seguiti allo scatto d’orgoglio di fine luglio 2020.
Lo schema sembra ripetersi. Dopo il periodo febbraio-aprile, quello dell’ognun per sé, grazie al riattivarsi dell’asse franco-tedesco è giunto quello della riscossa del maggio-luglio. Alla fase “mitica” ne è seguita una nuovamente dominata dal lassismo, poi tramutatosi in divisione. Al posto dei cosiddetti “frugali” a salire sul banco degli imputati sono stati gli illiberali della “nuova Europa”, fino a giungere al braccio di ferro tra istituzioni, da una parte Commissione e Consiglio europeo (a presidenza di turno tedesca) a predicare realismo, e dall’altra il Parlamento europeo, allo stesso modo legittimamente impegnato a difendere le proprie prerogative e principi democratici che dovrebbero essere “non negoziabili”. L’impennata dei contagi contribuirà ad un nuovo scatto in avanti e finalmente i fondi di Next Generation EU potranno affluire nei primi mesi del 2021, si spera insieme alle prime dosi di vaccino?
L’epilogo si spera possa essere questo e ancora una volta il fatto che Angela Merkel sia in cabina di regia qualche garanzia la offre. Il nodo della questione, o perlomeno le radici più profonde dell’evoluzione in atto nel processo di integrazione europeo, spingono a guardare oltre la seppur drammatica contingenza. Il punto dirimente è chiedersi oggi se la crisi pandemica abbia innescato una serie di cambiamenti strutturali del complesso edificio comunitario o se siamo di fronte a mutamenti importanti e decisivi, ma soltanto di natura congiunturale.
A testimonianza di quanto il tema sia rilevante un invito a riflettere in questa direzione è stato lanciato di dalla presidente della Bce Christine Lagarde. Oramai ad un anno dal suo arrivo a Francoforte Lagarde, riflettendo sulla possibilità che con il Recovery Fund l’Ue, accanto alla politica monetaria, si sia dotata di una qualche forme di politica di bilancio, seppure provvisoriamente, scoperchia il vaso di Pandora e dice esplicitamente: “oggi questo strumento risponde ad un evento eccezionale” (la crisi sanitaria globale). Per poi completare il ragionamento: “bisognerà discutere la sua possibile istituzionalizzazione come strumento aggiuntivo nella cassetta degli attrezzi europei”.
È evidente che Lagarde, prima di avere un elevato profilo tecnico, è una figura politica navigata (Ministero del commercio e dell’economia francese, guida del FMI e ora della BCE sono prima di tutto incarichi politici) e ogni sua parola è soppesata con grande attenzione. È altresì chiaro che la struttura burocratica che la Commissione sta creando ex-novo per “andare sui mercati”, operazione sino ad oggi mai svolta, difficilmente potrà essere smantellata da qui a fine 2024. Insomma se due indizi non fanno una prova, poco ci manca, e questo per dire che l’idea di qualcosa che possa assomigliare ad un meccanismo di emissione di euro-bonds potrebbe profilarsi all’orizzonte come uno degli effetti (non negativi) della drammatica congiuntura epidemica.
Ma se tutto ciò dovesse andare in porto, se cioè dovesse consolidarsi un’interpretazione strutturale della risposta europea alla crisi, allora però occorrerebbe aprire un altro “cantiere” che, senza paura del termine, va forse definito come “identitario”, recuperando magari la parte migliore di quella riflessione che si avviò al Consiglio europeo di Copenhagen nel lontano 1973 e che troppo spesso è derubricata a mera pulsione anti-americana. Sarebbe necessario cioè tagliare il “nodo gordiano” dell’avanzare compattamente a 27.
Occorrerebbe a quel punto non nascondersi dietro la retorica di una visione teleologica dell’europeismo. Sarebbe opportuno finalmente prendere atto che la costruzione dell’edificio comunitario così come pensato dopo il secondo conflitto mondiale, va consegnato ai libri di storia e allo stesso modo occorrerebbe riprendere in mano le scelte fatte dopo la fine dello scontro tra i due blocchi.
Riunificazione tedesca, nascita dell’euro e allargamento ad est, tre passaggi strettamente connessi e tutti storicamente legati alla chiusura della Guerra fredda, non devono essere rinnegati, ma vanno finalmente riadattati all’evoluzione in atto nel XXI secolo. E affinché nel nuovo mondo post-bipolare e post-pandemico, a sempre maggior strutturazione regionale, l’Ue possa essere messa nelle condizioni di svolgere un ruolo rilevante, la sua omogeneità interna, la convinzione di essere una comunità di destini e di volersi dare gli idonei strumenti (che giova ricordarlo non sono solo normativi, ma anche economici e militari) diventa fondamentale. E ad oggi questa omogeneità è ben lungi dall’esser presente. In questo senso, “frugali” dell’ovest o del nord (Olanda e Finlandia ad esempio) e “illiberali” dell’est (Polonia ed Ungheria) pari sono nel costituire elementi disaggreganti e non compatibili con lo scatto in avanti per rendere la risposta alla pandemia il primo gradino di una decisiva riforma strutturale dell’Unione.
Tutti speriamo nella minor recrudescenza della seconda ondata epidemica in atto. Ma se il passaggio dall’emergenziale ad una futura e sospirata normalità non lascerà segni concreti di riflessione, passaggi strutturali e segni di pragmatico realismo adattivo, allora resteranno solo le cicatrici di una drammatica pandemia e quelle di un’Ue emblema politico-istituzionale del definitivo declino europeo.
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