Uguaglianza e merito. Come e perché la scuola è diventata un’emergenza nazionale - Fondazione PER
20077
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Uguaglianza e merito. Come e perché la scuola è diventata un’emergenza nazionale

di Nicolò Addario

 

L’attuale governo ha rinominato il Ministero dell’Istruzione aggiungendo “e del merito”, con ciò scatenando una ridda di commenti (alcuni a mio avviso strampalati), e in questo modo ha però (involontariamente?) riaperto una questione che politicamente sembrava ormai sepolta per sempre. È il classico caso di “effetti inintenzionali di azioni intenzionali”. La cosa però in apparenza curiosa è che gli unici a non parlarne siano stati i partiti (in particolare di sinistra-centro) e sindacati come CGIL e CISL (che  nonostante tutto continuano a essere i più rappresentativi, anche se ormai la maggioranza degli iscritti è costituita da pensionati). Questo silenzio a sinistra non è però inintenzionale, perché il merito viene sovente associato a “selezione di classe”. Ma cosa si dovrebbe intendere per merito, soprattutto se viene riferito all’istruzione?

Iniziamo da una semplice costatazione. Dopo il collasso degli ex paesi a regime comunista, il classico obiettivo della sinistra, ossia l’uguaglianza economica, soprattutto se intesa come abolizione della proprietà privata, è stata sostanzialmente messa da parte. Come mostrano i casi di Italsider e Alitalia, è tuttavia rimasta l’idea che lo statalismo sia meglio del mercato. Più in generale, manca un’idea all’altezza dei tempi di cosa possa significare un approccio realmente riformista ai principali problemi economici e sociali dell’Italia.

Questo non vuol dire che il tema dell’uguaglianza economica sia del tutto privo di valore, ma che andrebbe affrontato in modo nuovo, tenendo conto, soprattutto, delle conseguenze della globalizzazione (molto evidente proprio in economia, ma assai rilevante in molti altri settori, come le tecnologie, la ricerca scientifica, la medicina e i mass-media). Quando si parla di globalizzazione sovente non si tiene conto che essa riguarda processi rispetto ai quali i singoli stati nazionali possono molto poco, soprattutto se non sono di grandi dimensioni. In breve, i “confini” degli stati nazionali costituiscono un limite forte alla loro capacità di influenzare (e tanto meno indirizzare) processi che operano su scala globale. Per fare un esempio, dovrebbe essere evidente che l’Unione Europea sarebbe molto più forte – politicamente, economicamente e, cosa niente affatto secondaria,  anche militarmente – se si strutturasse come un vero Stato Federale.

Avremo modo di tornare sulla questione delle policies di uguaglianza più opportune nella presente situazione di globalizzazione. Per ora è utile ricordare che, nel contesto della democrazia e dello stato di diritto e del fallimento dell’uguaglianza in senso comunista, l’uguaglianza è necessariamente declinata al plurale: (1) uguaglianza giuridico-politica (incluso il diritto a resistere al potere politico, se questo è esercitato in modo non democratico); (2) uguaglianza sociale o di status; (3) uguaglianza di opportunità. Naturalmente, l’uguaglianza di status dipende in misura importante dalle capacità economiche, perché la possibilità di esercitare effettivamente i diritti soggettivi di cui ai punti (1) e (3) è legata in misura non banale alle capacità economiche (si pensi al costo di un buon insegnante quando si devono mandare i figli a ripetizione o ai costi ci certe università private). Lo vediamo subito entrando più nel merito del reale significato di uguaglianza di opportunità, che è direttamente legata all’istruzione (e quindi al merito).

La prima accezione di uguaglianza di opportunità sta per uguale accesso. A che cosa? Ad avere lo stesso trattamento per un uguale merito, che normalmente è inteso come diritto a una “carriera” lavorativa in funzione delle capacità acquisite e dei talenti posseduti dai singoli soggetti. La seconda accezione ci collega direttamente all’istruzione e intende l’eguale opportunità in termini di uguali partenze, ad esempio in termini di livello d’istruzione. È infatti indubbio che per poter esercitare il diritto a un uguale accesso alle carriere occorra poter partire dalla stessa linea iniziale. Da tempo questo essenzialmente presuppone che occorre avere un’eguale condizione d’istruzione. L’istruzione è infatti ciò che apre le porte alle possibilità di carriera. Essa, peraltro, è anche il modo in cui i singoli soggetti possono scoprire di possedere eventuali talenti (anche nella forma di inclinazioni e/o spiccate preferenze) e di essere comunque valutati in base ai meriti (scolastici) e all’impegno. Sappiamo peraltro che i livelli d’istruzione sovente dipendono dal livello di reddito familiare. Ma non si tratta soltanto di possibilità economiche. La ricerca internazionale ha da tempo mostrato che i livelli d’istruzione che vengono raggiunti dai giovani dipendono principalmente dalle motivazioni familiari e dall’ambiente sociale in cui si sono socializzati. Il modo in cui si parla in famiglia nonché gli “oggetti” di discussione quotidiana condizionano sia i modi di espressione linguistica sia l’orizzonte di possibilità di carriera che, in modo più meno inconsapevole, si dischiude ai singoli individui.

Se teniamo conto di queste circostanze emergerà la ragione per cui un sistema d’istruzione pubblica non è più sufficiente, come si credeva un tempo, ad assicurare che la diseguale condizione economico-sociale impedisca eguali opportunità, soprattutto per quanto riguarda le uguali partenze conoscitive per poter poi accedere alle carriere in base ai meriti conseguiti. Soprattutto nell’attuale fase storica di alta globalizzazione, ci vorrebbe un sistema scolastico che tenesse nel massimo conto le diseguaglianze dei punti di partenza (in gran parte dipendenti dalle umili condizioni delle famiglie), cosa che invece non fa. Ancor più se si pensa che la scuola italiana è andata in una direzione, accentuatasi in questi ultimi anni, che non valorizza come dovrebbe i meriti e i (potenziali) talenti. La conseguenza generale è un incredibile abbassamento della capacità del sistema scolastico di promuovere un reale e diffuso apprendimento. In tutti i test Invalsi gli studenti italiani risultano agli ultimi posti su scala europea. Nonostante le polemiche sui test, resta il fatto innegabile che su grandi numeri e tenendo conto della comparazione le statistiche (confermate da altre ricerche) registrano una condizione di apprendimento molto inferiore alla media europea. Cosa che si aggrava se passiamo dal livello nazionale a quello regionale, dove le regioni meridionali risultano di gran lunga inferiori alle regioni del Nord.

Peraltro questa è una delle ragioni per cui nel mercato del lavoro una forte domanda di lavori specializzati resta inevasa, con numeri impressionanti nei settori della medicina,  dei servizi alle persone e dell’economia “verde” (attività legate alla “transizione ecologica”). Nei primi due settori abbiamo infatti un deficit di occupati che supera il milione e mezzo. Non si tratta solo della conseguenza del blocco del turnover (a seguito dei limiti di bilancio pubblico imposti dall’enorme debito pubblico), ma pure della mancanza cronica di investimenti. Questo, insieme alla ventennale mancanza di crescita economica (l’attuale PIL è ancora inferiore a quello del 2000), ha generato un formidabile circuito perverso: meno posti di lavoro, più famiglie con entrate monoreddito, con i salari più bassi d’Europa  e con carichi di cura più elevati, meno figli, più anziani (in prospettiva avremo un gravissimo problema demografico).

A parte le questioni legate alla mancanza di crescita (per scarsi investimenti, sia pubblici che privati, com’è evidenziato dalle statistiche sull’andamento della produttività totale dei fattori) e che sono alla base dei bassi salari e delle scarse opportunità di lavoro, una delle ragioni per cui mancano domande di lavoro qualificato è in misura non banale dovuto al sistema scolastico, che prepara in modo inadeguato ai nuovi mestieri (in crescita per la globalizzazione). Soprattutto, non motiva a sufficienza gli studenti a indirizzarsi verso carriere migliori, più remunerative e a più alta richiesta. Non a caso è da circa una trentina d’anni che le ricerche sulla mobilità sociale ci dicono che essa si è arrestata. Cosa particolarmente evidente nel caso della mobilità intergenerazionale, che invece era stata elevata nella fase del boom economico: nel 1985 i figli di operai che avevano una laurea avevano una chance di diventare imprenditore, libero professionista o dirigente superiore a quella che  poteva avere il figlio di un borghese che si fosse fermato al diploma (22,4% contro 15,3%, con soggetti nati tra il 1920 e il 1960).

Torniamo quindi al sistema scolastico, perché è alla base del diritto alle pari opportunità. A questo punto la domanda è: perché il sistema scolastico ha fallito nella sua missione di diffondere un’istruzione adeguata ai tempi e capace di motivare gli studenti a proseguire negli studi (e quindi a orientarsi verso carriere migliori)?  La risposta, volutamente provocatoria, è perché la scuola ha smesso di essere selettiva. Non si può formare realmente senza selezionare in base ai risultati individuali e i risultati si possono valutare solo in termini di cultura realmente insegnata (letteratura, matematica, fisica e lingue stranire). Ma questo, a sua volta dipende molto dalla qualità degli insegnanti oltre che dai programmi.

Il declino della scuola è iniziato già nella metà degli anni Settanta, ma il colpo finale lo dette la riforma Berlinguer del 2000, introducendo i “progetti extracurricolari”, la valutazione “oggettiva” e il “diritto al successo formativo”. Ora, come ha ben detto Paola Mastrocola, i progetti «mettono in ombra le  materie curricolari, sono ritenuti più importanti, … Le materie decadono a optional, l’inutile e marginale, vecchio e stantio materiale da smaltire, residuo di una scuola antiquata e superata. … Si tollera ancora la loro esistenza, ma si dà loro sempre meno valore. Le parole chiave erano studio, conoscenza, insegnamento, istruzione, lezione. Ora sono altre: formazione, educazione, innovazione, territorio» ( P. Mastrocola e L. Ricolfi, Il danno scolastico. La scuola progressista come macchina della disuguaglianza, La nave di Teseo, 2021, pp. 153 e ss.; D. Checchi, Immobilità diffusa: perché la mobilità intergenerazionale è così bassa in Italia, Il Mulino, 2010). Ma cosa diavolo può realmente significare “apertura al territorio”? Soprattutto se consideriamo che questa fase storica è caratterizzata da una globalizzazione assai diffusa in quasi ogni ambito sociale. Persino molti laureati (anche nel Nord d’Italia) sono spinti a emigrare per cercarsi un lavoro adeguato alle loro ambizioni.

Cerchiamo di motivare questa tesi (in apparenza così perentoria). Poco sopra ho mostrato come la pari opportunità abbia due facce. Nonostante esse operino con criteri differenti, sono in realtà le due facce della stessa medaglia. Non si può avere eguale accesso alle carriere in funzione delle capacità e dei talenti se non si hanno eguali punti di partenza. Come abbiamo accennato, i punti di partenza sono condizionati dalla situazione socio-economica, soprattutto perché la famiglia di umili origini non motiva ad aspirare ad avere una carriera superiore a quella dei genitori (in realtà quasi esclusivamente il padre, perché in queste famiglie le donne sono “condannate” quasi sempre a fare le casalinghe). Ma proprio è questo lato della medaglia che, svalutando le tradizionali materie d’insegnamento, l’attuale sistema scolastico ha di fatto accentuato.

La norma che pone l’accento sul “diritto al successo formativo” si traduce nell’appiattimento della valutazione degli studenti. Essa viene ancora giustificata nel nome della lotta alla “selezione di classe” (anche se forse oggi si usano termini un po’ differenti). Ma i dati e l’esperienza ci raccontano una storia molto diversa. Il motivo è duplice. Il primo è che la mancanza di selezione non motiva la massa degli studenti allo studio, compresi quelli provenienti dai ceti medio-alti. Se l’impegno e il merito non vengono incoraggiati e premiati, perché studiare e faticare? Tanto alla fine si è promossi lo stesso! Il secondo motivo è che questo appiattimento opera negativamente proprio sugli studenti più poveri, anche se formalmente non vengono bocciati. È dunque molto probabile che essi restino condannati a riprodurre (nel migliore dei casi) la condizione sociale della famiglia d’origine.

In questo modo si ottiene esattamente il contrario di quello che (in teoria) la scuola si prefigge: si ha una “selezione di classe” di fatto. La forma, ovvero la non selezione in base al merito e al talento effettivi, si traduce in una selezione sostanziale (cosa segnalata anche dalla crescita degli abbandoni scolastici, particolarmente elevata negli istituti tecnici e in quelli professionali). A sinistra si parla molto di lotta alle disuguaglianze (attualmente in crescita, arrivando ai livelli degli anni trenta del Novecento), che “occorre tornare nelle periferie”. Ma si ignora totalmente il problema cruciale delle diseguaglianze generate e/o perpetuate proprio dalla scuola pubblica.

Uno degli aspetti più importanti della questione riguarda gli insegnanti. L’assenza istituzionalizzata del merito incomincia proprio dagli insegnati. Le loro carriere e i loro stipendi sono infatti totalmente slegati da impegno e merito e questo non solo è profondamente ingiusto, ma anche di fatto un incentivo a cercare di fare il meno possibile. Perché cercare di essere pedagogicamente impegnati e possibilmente innovativi se questo non viene riconosciuto e opportunamente premiato? Perché darsi da fare, se il livello di stipendio dipende soltanto dal livello di anzianità lavorativa? Per farsi queste domande non occorre sapere di filosofia utilitarista.

Ma torniamo al punto della mancanza di selettività scolastica in base a meriti e talenti. La scuola non selettiva, da un lato, non incentiva e non premia a sufficienza il merito, ossia le effettive performances degli alunni, ossia quanto uno fa bene quello che fa. Quindi, di fatto, non spinge nella direzione dell’uguaglianza nel merito o talento. Dall’altro lato, non tiene nel minimo conto che i punti di partenza sono profondamente diseguali e che quindi si dovrebbe intervenire già a questo livello se la scuola non vuole essere la prima forma di fattuale “selezione di classe”. La scuola dovrebbe dunque essere affiancata da strutture di supporto (con borse di studio, altra didattica più mirata) per i ragazzi che partono più indietro perché non sono sufficientemente motivati dalla famiglia d’origine e dal loro ambiente sociale. Strutture che dovrebbero avere anche una conoscenza del potenziale mercato del lavoro, in modo da dare orientamenti verso nuovi settori, sempre in crescita per la spinta della globalizzazione. Sappiamo che i giovani che prevengono dai ceti medio-alti è probabile che trovino un buon lavoro anche se la scuola non li ha formati a dovere

Il nervo scoperto è dunque quello della selettività o meno del sistema scolastico, sapendo che questo punto non è affatto risolto dal richiamo a un formale “diritto alla formazione”. La domanda a mio avviso decisiva è se sia possibile educare senza valutare la corrispondenza o meno tra aspettative poste dall’intenzione pedagogica e quello che effettivamente si è ottenuto? Da questa prospettiva, il docente non ha o non dovrebbe avere alternative. Il fatto stesso che l’attività educativa debba presupporre un rapporto causale tra intenzione pedagogica e comportamento effettivo dell’allievo implica selezione. La valutazione di ciò che si è effettivamente ottenuto è già di per sé selettivo, perché il risultato varia nei diversi casi individuali e non si può non tenerne conto, altrimenti il ritardo accumulato di fatto sarà pagato quando si andrà a cercare un’occupazione. Ed è qui che entra in gioco la regola delle uguali opportunità, nel senso di uguale riconoscimento a uguale merito: capacità e meriti devono essere valutati in modo eguale per tutti, ma questo necessariamente implica che non si può non tener condo delle differenze nei risultati, anche per un principio di giustizia. Se lo studente scarso viene valutato al pari di quello più bravo si fa una cosa ingiusta proprio sul piano etico. Forse è proprio per questo che sono stati introdotti i “progetti extracurricolari” che hanno di fatto svalutato le tradizionali materie d’insegnamento.

La regola delle pari opportunità deve dunque tener conto del fatto che i punti di partenza sono socialmente diseguali perché le condizioni iniziali per l’uguale accesso non sono affatto uguali. Ma questo problema non viene affatto risolto se la valutazione delle materie ridimensionata a favore di “progetti extracurricolari” che non si capisce cosa in realtà siano. Da un lato si pretende una “valutazione oggettiva” (i test); dall’altro i progetti restano indefiniti, perché vengono lasciati alle scelte dei singoli docenti. Ma proprio per questo la valutazione (almeno dei risultati effettivamente conseguiti) dovrebbe essere fatta nei confronti dei docenti. Questo non viene però fatto. Sorge così il sospetto che i docenti non siano valutati perché la scuola è nelle mani di un sindacato che, in modo paradossale, vuole evitare proprio ciò che invece dovrebbe esigere: premiare il merito e l’impegno onde evitare che questo vada a discapito proprio degli studenti che già in partenza sono svantaggiati.

Riassumo e chiudo. Per generare effettive pari opportunità è necessario applicare nel contempo quattro regole: a) come nel caso della democrazia, le pari opportunità è oppure non è (principio del terzo escluso, aut aut); b) poiché l’istruzione si misura necessariamente per i livelli culturali ottenuti, occorre valutare i gradi d’istruzione effettiva che sono stati raggiunti da ciascun soggetto; c) poiché i gradi d’istruzione effettiva sono socialmente condizionati, la pari opportunità diventa effettiva se, e soltanto se, la scuola valuta in via selettiva i singoli studenti, ma tenendo condo dei differenti punti di partenza e intervenendo a correggerli (almeno in parte); d) per rendere stringenti le tre regole precedenti diventa necessario valutare in primo luogo gli insegnanti. In modo sintetico si potrebbe dire che sia per gli alunni che per gli insegnanti dovrebbe valere il seguente principio: compensi diversi ai diversi.

Ovviamente, a questo punto le competenze e le capacità reali degli individui saranno valutati nelle organizzazioni lavorative. Ma qui varrà la regola tipica del mercato del lavoro (in regime di concorrenza), ossia “parti proporzionali al rendimento effettivo e, di conseguenza, alle capacità conseguite e messe in pratica”. Si è effettivamente “liberi di” scegliere il lavoro soltanto se si è stati “liberi da” ogni impedimento che sia derivato dalla condizione sociale di partenza e che la scuola non ha saputo fronteggiare. È a questo compito che dovrebbe dedicarsi con efficacia il sistema scolastico, ma questo a sua volta dovrebbe indurlo a misurare, con la maggio precisione possibile, quanto delle sue intenzioni pedagogiche si siano fattualmente realizzate, proprio per combattere in modo consapevole quella “selezione di classe” che afferma di voler evitare. Il che ci riconduce al fulcro della questione, ossia gli insegnanti (alla loro formazione e selezione).

Nicolò Addario
addario@ciao.ir

Professore ordinario di Sociologia generale. Insegna Teoria del mutamento sociale e dell'innovazione e Comunicazione politica presso l'Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia.

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