
15 Feb Urbicidio, la guerra della Russia contro le città dell’Ucraina
di Francesco Gastaldi
Il prossimo 24 febbraio sarà trascorso il primo -e forse non l’ultimo- anno di guerra in Ucraina. In questi quasi 12 mesi abbiamo imparato a conoscere e riconoscere soprattutto i volti delle città interessate dal conflitto, spesso in immagini e video confrontativi di come le città fossero prima e come sono divenute dopo il conflitto. Tra le immagini più note probabilmente vi sono il Teatro dell’Opera di Mariupol ed il Palazzo del Consiglio Comunale a Mykolaiv sventrato nel suo cuore. Ma se diciamo Ucraina tutti noi visualizziamo nelle nostre menti immagini di enormi palazzi, pubblici e residenziali, distrutti e pieni di macerie. Quella in Ucraina, così come viene rappresentata dai media, appare quindi come una guerra (anche) urbana: si può parlare anche in questo caso di “urbicidio”?
Elementi dell’architettura urbana sono capaci di assurgere a simbolo identitario dal valore estrinseco potentissimo, tale per cui se lo si annienta si lancia il messagio di -voler- annientare quella cultura. E d’altronde così in parte è stato inteso ed è da leggersi, l’attacco del 2001 a New York con l’abbattimento delle Twin Towers: il manifesto della volontà di cancellare gli Stati Uniti, l’Occidente. Sappiamo bene che è dal 1991 che l’Ucraina si è dichiarata indipendente, così come nello stesso anno fece l’ex-Jugoslavia, a cui però seguì una guerra civile cruenta, segnata da crimini contro l’umanità. Proprio in quel conflitto venne attuato un nuovo modo di intendere la strategia di guerra: procedere alla cancellazione di un popolo -è il caso della cosiddetta “pulizia etnica”- anche attraverso la distruzione e rimozione fisica del patrimonio culturale, architettonico, storico. Ecco cosa vuol dire “urbicidio”, termine coniato per primo dall’architetto e sindaco di Belgrado (1982-1986) Bogdan Bogdanovic.
In Italia il termine acquista nuova diffusione nel 2010 con il volume di Francesco Mazzucchelli, che concentra il suo studio sulle città di Belgrado, Sarajevo e Mostar. Nelle guerre jugoslave (1991-2001) l’attacco militare violento e distruttivo alle città è divenuto una prassi del fare una guerra. In conflitti etnici come quelli jugoslavi uno dei principali moventi è specificamente l’annientamento di una civiltà, di una cultura diversa e vista come nemica, e cosa meglio di una città rappresenta in sé la storia, la cultura, i valori di una nazione?!
L’esempio più efficace e tragico è probabilmente Sarajevo, rimasta sotto assedio per più di 1400 giorni, da aprile 1992 a febbraio 1996. Il mito narra anche che Belgrado nei suoi 2400 anni di storia sia stata distrutta 40 volte, ed altrettante ricostruita, l’ultima a seguito del bombardamento della NATO nel 1999. Se si dice Mostar si evoca in un istante il suo ponte a campata unica, che collega le due parti della città, simbolo dell’unione multientica che lì esiste(va). Abbatterlo così come ricostruirlo ebbe una portata valoriale simbolica ben più grande della mera -per quanto mirabile- azione architettonica.
“Urbicidio” è certamente ciò che è avvenuto in ex-Jugoslavia, che per Bogdanović è “un’opposizione manifesta e violenta ai più alti valori della civiltà”: riguarda certo la distruzione fisica delle città, ma anche di più poiché involve la distruzione simbolica della cultura, dello spirito e della convivenza sociale che la città esprime, in allora e nel tempo precedente alla distruzione. Anche la rimozione della devastazione portata dalla guerra costruendo nuovi palazzi e nuovi elementi architettonici può operare una rimozione della memoria, cosa che invece non accadrebbe ove si decidesse di operare differenti trasformazioni urbanistiche post-belliche. L’opera di ricostruzione dovrebbe ben interrogarsi prima di attuarsi liberamente, onde evitare di portare fino in fondo l’urbicidio, poiché come costruiamo le città è -nemmeno troppo simbolicamente- come costruiamo la memoria del nostro popolo.
Esiste dal 1954 una norma della Convenzione dell’Aja che ambisce a tutelare il patrimonio culturale durante i conflitti armati, memore tra le altre della tragica distruzione della città tedesca di Dresda tra il 13 e il 15 febbraio 1945. E’ evidente che chi compie urbicidio viola la Convenzione.
In Ucraina viene certamente condotta dalla Russia una guerra alle città, non solo per colpire i civili, con l’intento anche di sobillare un’insurrezione al governo di Kyiv, ma anche per colpirne simboli nazionali, per abbattere e cancellare fisicamente e letteralmente il popolo ucraino.
Questa strategia però non viene adottata -e per fortuna!- su tutto il suolo ucraino, anzi solo in uno spazio ridotto -sebbene esteso- dello Stato. Inoltre la Russia stessa nelle città conquistate ha avviato una decisa opera di ricostruzione: a Mariupol è stata già annunciato un piano generale di ricostruzione e sviluppo da qui al 2040, con il chiaro obiettivo di dimostrare la capacità di benessere e sicurezza che la Russia sa offrire. Ma la guerra insiste, non cessa, non vi è alcuna avvisaglia di ciò, tutto resta instabile, sia l’azione distruttiva, sia l’azione ricostruttiva: oggi come oggi è difficile stabilire con chiarezza se e se mai dove in Ucraina possa parlarsi di urbicidio, sicuramente questo sta avvenendo in parte e in certe aree del Paese.
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